Sadegh Hedayat e Chretien de Troyes
Pubblicato nel 1932, durante un periodo di intense trasformazioni sociali in Iran sotto lo Scià Reza Pahlavi, il protagonista del racconto è un uomo che si trova rinchiuso in un manicomio, la cui mente frammentata si riflette in personaggi che sono soltanto nemesi di sé stesso.
Per poter apprezzare la complessità e la stratificazione culturale dell’opera, dobbiamo tener presente la formazione europea di Hedayat. Durante un lungo soggiorno di studio parigino negli anni Venti, lo scrittore iraniano aveva approfondito in modo particolare la letteratura europea e francese, insieme alle correnti letterarie e filosofiche occidentali. Questa esperienza si rivelò fondamentale per il suo approccio innovativo alla narrativa persiana, permettendogli di fondere elementi da diverse tradizioni letterarie con il patrimonio culturale iraniano.
La modernizzazione forzata promossa dallo Scià creava negli intellettuali iraniani dell’epoca una particolare tensione fra tradizione e modernità, tra identità nazionale e influenze occidentali. Hedayat incarnava perfettamente questa contraddizione, traducendola in opere che dialogavano simultaneamente con entrambi i mondi. Non a caso, studiò in Europa, si lasciò influenzare apertamente da Poe e Maupassant in modo particolare, ma poi svolse ricerche sulle tradizioni popolari del suo paese.
L’io narrante di questo racconto convive con figure che appaiono come sdoppiamenti schizofrenici, tra i quali però prendono forma due personaggi assolutamente reali: l’amico Suyavosh e la sua fidanzata Rukhsareh che, a differenza delle altre nemesi, esistono concretamente nella vita del protagonista e vengono a fargli visita di tanto in tanto.
La configurazione simbolica delle visioni riferite dal narratore sembra rimandare a un trauma derivante proprio da una delusione amorosa, nella quale i due devono aver svolto un ruolo attivo. Mirza, infatti, questo il nome del protagonista internato nella struttura psichiatrica, parla inizialmente di lei come della propria ragazza, non come della fidanzata dell’amico.
La struttura narrativa riflette e ratifica questa ricostruzione: il racconto procede attraverso salti temporali e prospettive multiple, specchiando il funzionamento di una mente dissociata, nella quale ha un ruolo centrale la figura di un gatto corteggiatore, ucciso dall’amico con una pistola, che torna a cantare sotto la finestra del protagonista ogni notte. Quel gatto corteggiava proprio la gatta di Rukhsareh.
Si direbbe una proiezione inconscia di un qualcosa che dev’essere avvenuto in un tempo indefinito fra Mirza e Rukhsareh, prima che quest’ultima intrecciasse una relazione amorosa con Suyavosh. Il gatto morto dunque non è che la voce del protagonista medesimo, simbolicamente ucciso dall’amico nel momento in cui ha infranto il suo sogno d’amore o gli ha portato via l’amata.
Il ritorno del gatto che canta le sue nenie d’amore incarna quella parte di sé, pur repressa, che continua a manifestarsi, esprimendo dolore e desiderio non sopiti. Questa dinamica rafforza il tema della divisione dell’io e del conflitto interiore, centrale nel racconto. Il gatto fantasma diventa così il custode di una memoria traumatica che si rifiuta di essere sepolta.
La canzone stessa, ripetuta ossessivamente, causa una reazione di rifiuto da parte della donna e di sua madre.
Un’ulteriore conferma del quadro appena descritto la troviamo nella simbologia delle tre gocce di sangue che danno il titolo al racconto, e che non rimandano tanto a un folklore antico dell’Iran, ma a un’immagine iconica tratta proprio dalla letteratura francese, più precisamente dal Perceval di Chrétien de Troyes.
Nel romanzo medievale, il cavaliere del Graal osserva tre gocce di sangue di un uccello cadute sulla neve, evocandogli il ricordo dell’amata Biancafiore. Hedayat, formatosi in Francia e profondamente influenzato dalla letteratura europea, sembra aver consapevolmente richiamato questa immagine, rielaborandola nel contesto iraniano: nel suo racconto, le tre gocce di sangue sono legate alla memoria della ragazza amata, che nel finale si bacia con l’amico, accentuando il senso di tradimento e perdita.
La ripetizione ossessiva di questa immagine nel testo conferma la sua funzione di leitmotiv psicologico. Questa fusione di simboli europei con elementi di folklore e superstizione iraniana crea una stratificazione simbolica originale e complessa, testimonianza della sintesi culturale operata dall’autore.
La poesia citata dal protagonista, attribuita al pazzo Abbas, una delle sue nemesi, non sembra derivare da un testo folklorico preciso, ma richiama la musicalità e le immagini della poesia popolare persiana, intrisa di fatalismo e mistero; lo stesso autore la definisce quasi una ‘filastrocca’.
Hedayat, noto per il suo lavoro di raccolta delle tradizioni popolari iraniane, utilizza questa poesia per evocare l’atmosfera inquietante e simbolica del racconto, fondendo tradizione e modernità. La struttura metrica e le immagini evocate nella poesia – la notte che avvolge il mondo, la solitudine esistenziale, la morte come unica consolazione – rispecchiano i temi centrali della lirica persiana classica, ma sono filtrate attraverso una sensibilità moderna che ne amplifica il carattere angoscioso.
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