L’amore incondizionato e autodistruttivo in Maupassant

Maupassant, L’impagliatrice (1822). Voce narrante, Federico Berti

Nel racconto dell’Impagliatrice (1882), Maupassant sembra ricadere in uno dei più pericolosi tra gli stereotipi di genere, quello dell’amore incondizionato e autodistruttivo, che un personaggio femminile attribuisce genericamente alle donne salutandolo quasi come un valore positivo, di totale dedizione e sottomissione.

Il racconto presenta una dinamica relazionale distorta in cui una nomade impagliatrice di sedie dedica tutta la propria esistenza a sognare e desiderare un uomo che la disprezza apertamente, mostrando nei suoi confronti quella che si configura come una dipendenza emotiva di tipo patologico. Non solo il farmacista, oggetto della sua idealizzazione, la ignora e la scaccia, con l’aggravante del conclamato disprezzo per la sua condizione sociale, ma continua a manifestare apertamente la sua ostilità anche dopo la morte di lei, senza rinunciare al denaro che la donna ha messo da parte per lui. Denaro che gli giunge tramite un esecutore testamentario, e che lui investe in azioni sul mercato finanziario.

La figura dell’impagliatrice diventa così emblema di una concezione dell’amore femminile che riflette e rinforza strutture di pensiero palesemente patriarcali, dove la devozione unilaterale viene spacciata per virtù spirituale superiore. Come al solito, dobbiamo tener conto della prospettiva naturalistica in cui si colloca l’autore, che osserva la realtà in modo distaccato per farsene portavoce: nel racconto non fa che riflettere le convenzioni narrative dell’epoca, in cui si tendeva a rappresentare le donne attraverso schemi dicotomici, virtuosa e devota se dipendente e sottomessa, perduta e corrotta se libera e autodeterminata.

Il racconto si apre con una discussione sull’amore che fa da cornice narrativa, nella quale viene a rafforzarsi il pregiudizio maschile secondo cui le donne credono nell’unicità del vero amore, che si presenta una sola volta nella vita, mentre gli uomini lo considerano addirittura come una malattia che si può contrarre più volte.

Maupassant non parla esplicitamente di zingari, ma fa capire che la vita di questa donna è quella di un’artigiana nomade, benché solitaria, ribadendo così l’idea di un pregiudizio sociale con venature di suprematismo: donna, nomade, povera, quindi tre volte esclusa dalla società del tempo. La struttura del racconto di Maupassant è costruita per orientare la simpatia del lettore verso una specifica interpretazione degli eventi; la cornice narrativa, che presenta la storia come parte di una discussione filosofica sull’amore, conferisce credibilità a quella che è essenzialmente una rappresentazione distorta delle dinamiche affettive.

Il narratore non è neutro, ma partecipa attivamente alla costruzione di un’ideologia che presenta la sottomissione femminile come espressione di superiorità morale: questa strategia narrativa maschera un’operazione ideologica sotto l’apparenza dell’osservazione obiettiva, rendendo più persuasiva la tesi secondo cui le donne sarebbero naturalmente inclini a forme di amore più puro e disinteressato rispetto agli uomini.

La dinamica descritta nel racconto presenta tutti i caratteri di una relazione disfunzionale: asimmetria di potere, mancanza di reciprocità, idealizzazione dell’oggetto d’amore, e soprattutto la persistenza dell’attaccamento nonostante il disprezzo manifesto. Questo pattern comportamentale, che nella psicologia contemporanea viene riconosciuto come dipendenza affettiva patologica, viene invece presentato come espressione di amore autentico e disinteressato, dalla voce femminile che chiude il racconto.

La dinamica si manifesta fin dall’infanzia della protagonista, che sacrifica i propri risparmi per poter ottenere momenti di vicinanza fisica con l’uomo amato: questo dettaglio è particolarmente significativo perché stabilisce un rapporto di scambio economico-affettivo che persisterà per tutta la vita del personaggio. L’amore viene mercificato già nell’infanzia, ma questa mercificazione viene presentata come prova di devozione piuttosto che come sintomo di una relazione distorta. Il culmine si ha col testamento dell’impagliatrice, che destina tutti i suoi averi proprio all’uomo che l’ha sempre sdegnata. Questo gesto, che una delle donne resenti nel racconto scambia per amore, in realtà costituisce l’atto finale di una vita dedicata alla negazione di sé.

L’ideologia dell’epoca tendeva a naturalizzare la subordinazione femminile attraverso la glorificazione di virtù come l’abnegazione, il sacrificio e la devozione incondizionata. Questi tratti venivano presentati non come prodotti di un condizionamento sociale, ma come espressioni di una natura femminile intrinsecamente superiore dal punto di vista morale; tale narrazione serviva a mascherare l’oppressione, creando un sistema ideologico particolarmente insidioso, perché presentato alle donne come un insegnamento edificante.

Il meccanismo attraverso cui i personaggi di Maupassant naturalizzano l’oppressione è particolarmente sottile. Non viene mai affermato esplicitamente che le donne debbano sottomettersi agli uomini; piuttosto, viene suggerito che esse lo facciano spontaneamente, quando amano davvero. Questa strategia narrativa trasforma la sottomissione in una scelta libera, rendendo invisibili i meccanismi sociali che la orientano. L’impagliatrice diventa così il simbolo di una femminilità idealizzata che coincide perfettamente con gli interessi della borghesia maschilista ottocentesca: una donna che ama senza chiedere nulla in cambio, che si sacrifica senza lamentarsi, che persiste nell’amore nonostante l’indifferenza o il disprezzo. “Senza nulla mai chiedere”, canterà in Italia Nilla Pizzi mezzo secolo più tardi.

Questi racconti contribuiscono purtroppo a creare modelli etici disfunzionali che le donne interiorizzano come ideali da perseguire: l’impagliatrice di Maupassant diventa così un archetipo culturale che orienta le aspettative sociali riguardo al comportamento femminile nelle relazioni affettive; l’impatto di questi modelli si estende ben oltre la dimensione letteraria, influenzando le dinamiche relazionali reali e contribuendo alla perpetuazione di cicli di violenza psicologica.

La persistenza del modello rappresentato in “La Rempailleuse” nella cultura contemporanea dimostra l’efficacia dei meccanismi ideologici messi in atto dalla letteratura ottocentesca. Ancora oggi, molte rappresentazioni dell’amore femminile nei media popolari ripropongono dinamiche simili, dove la devozione unilaterale viene presentata come prova di amore autentico. Questo fenomeno è particolarmente evidente nel romance contemporaneo, dove spesso le protagoniste femminili vengono valorizzate per la loro capacità di perseverare nell’amore nonostante il comportamento problematico dei partner maschili.

Tuttavia sarebbe in questo caso un errore attribuire a Maupassant un punto di vista lineare nella vicenda, poiché il racconto fin dal principio tende a mettere in ridicolo le contraddizioni della società borghese, la dialettica irrisolta e l’ironia caustica, profonda sulle donne presenti in sala che manifestano disprezzo per la zingara, e poi cadono ipocritamente nello stereotipo dell’amore disfunzionale.

Il personaggio del farmacista, col suo sdegno opportunistico, viene inequivocabilmente messo in ridicolo, al punto che il narratore esplicitamente prende le distanze da lui giustificandosi col fatto che un medico di paese non dovrebbe mai mettersi apertamente in contrasto col farmacista locale. La zingara è pienamente vittima di una società che discrimina e condanna la sua vita ai margini, l’ossessione viene presentata chiaramente come una patologia sociale, non come una forma di elevazione spirituale.

Quindi la tesi finale del ‘vero’ amore femminile, è pure messa in ridicolo da un personaggio che fino a pochi minuti prima manifestava disprezzo per la figura stessa della zingara, non viene trattato cioè come un personaggio positivo. Il medico nel riportare il suo racconto parla di un amore incondizionato che dura tutta la vita, in risposta al simposio filosofico sull’amore, ma nemmeno lui è estraneo ai meccanismi dell’opportunismo sociale, essendo coinvolto in un conflitto d’interesse che lo porta a non entrare in conflito col farmacista.

Quindi non possiamo in questo caso parlare propriamente di un sessismo implicito in Maupassant, ma piuttosto di un’ironia spietata che va a toccare temi attualissimi e mette in evidenza le contraddizioni nella società del suo tempo. Una denuncia del luogo comune, piuttosto che una reale adesione allo stereotipo.

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