L’Intuppatedda e il Patriarcato in Giovanni Verga
Lontani mille e un miglio dalla cupa solennità dei Malavoglia o dalla feroce determinazione di Rosso Malpelo, in un testo pur breve, sperimentale, meno conosciuto rispetto ai grandi affreschi del verismo ottocentesco, Verga riesce a condensare tematiche ricorrenti nella sua opera rivestendole di un’ironia pungente e malinconica.
Al centro del plot narrativo una tradizione carnevalesca siciliana, descritta dall’autore come in declino già allora (siamo nella seconda metà dell’Ottocento): quella delle Intuppatedde, donne che per un solo giorno dell’anno possono indossare un velo nero, una sorta di Nikab – lasciando scoperto solo un occhio – e andarsene ovunque desiderino, godendo di una libertà temporanea e impunita.
Il rito delle Intuppatedde, storicamente attestato in diverse località della Sicilia orientale, assume in Verga un valore profondamente simbolico: le donne, coperte dal manto nero che le rende irriconoscibili, possono sovvertire i ruoli consueti che il patriarcato ha loro imposto: scelgono a chi rivolgere la parola, provocano, ridono e scherzano apertamente, si prendono gioco degli uomini e se vogliono, possono spingersi ben oltre, complice l’anonimato che la maschera garantisce loro. Nessuno ha il diritto di smascherarle, nessuno può punirle o offenderle senza violare la regola non scritta del carnevale.
E’ una libertà condizionata però: un rituale che può esistere solo entro i confini temporali e simbolici della festa. Proprio come nella concezione medievale del carnevale – teorizzata da Bachtin – anche qui si realizza un momentaneo “rovesciamento del mondo”: i potenti diventano oggetto di scherno, le gerarchie si invertono, la corporeità e il desiderio vengono liberati. Ma, esaurita la giornata, ogni cosa ritorna al suo posto, e l’ordine sociale riprende il suo corso immutato.
Verga osserva questo rituale con lo sguardo disilluso che gli è proprio, nessuna celebrazione gioiosa della licenza, nessun compiaciuto esotismo. La maschera è per lui solo una tregua apparente: la donna che si cela sotto il velo non conquista per sé una nuova identità, si limita a sospendere temporaneamente quella che le è propria. Non a caso, il racconto si chiude con un ritorno all’ordine che è al tempo stesso sociale e narrativo, con l’identità dell’Intuppatedda svelata e la funzione del rito ricondotta al folclore, quasi derubricata a curiosità etnografica.
Il titolo stesso – La coda del diavolo – suggerisce l’ambiguità della trasgressione: un’apparizione fugace, un brivido che non si traduce in rivoluzione, ma che serve forse proprio a rinforzare, per contrasto, le regole che pretende di violare. La “coda” è ciò che si intravede senza mai afferrare, un sintomo di un desiderio represso che il realismo verghiano non permette di soddisfare, né tantomeno di idealizzare. La maschera, nella letteratura di ogni tempo, è sempre stata luogo privilegiato di ambivalenza: protezione e inganno, rivelazione e nascondimento, libertà e alienazione.
In La coda del diavolo, la libertà stessa diventa una sorta di oggetto narrativo totale, attorno al quale si condensano riflessioni sulla condizione femminile, sul desiderio e sulla natura stessa dell’identità. La donna mascherata – invisibile e onnipotente solo per qualche ora – incarna perfettamente la tensione tra soggetto e ruolo, tra impulso e norma. In questo senso, il racconto verghiano anticipa, in forma embrionale e ironica, alcune istanze che solo molto più tardi saranno tematizzate dalla riflessione femminista: il corpo della donna come spazio pubblico, territorio vigilato, il travestimento come strategia di sopravvivenza, la festa come zona franca del desiderio.
Su questo scenario si muove un personaggio femminile che sembra volersi servire della tradizione per mandare un chiaro messaggio all’amico, un invito quasi, a portare la trasgressione nella vita quotidiana, oltre l’orizzonte rituale; dall’altra parte però, l’autore presenta un personaggio maschile che non ha il coraggio di spingersi oltre le convenzioni, oltre la ‘normalità’ dei ruoli, e pur desiderando la donna non compie mai il passo, non si propone, né comprende l’implicita offerta d’intimità che da lei era venuta sotto la protezione ambigua della maschera. Un uomo senza carattere, incapace di una volontà propria, incastrato nelle convenzioni sociali.