L’agro romano secondo Alberto Moravia
Alberto Moravia si distingue per una rappresentazione della vita rurale e dell’agro romano ben lontana dalla retorica fascista del bel-tempo-che-fu, offrendo al contrario un ritratto piuttosto crudo e disincantato della realtà contadina, nonché del rapporto (conflittuale, mai idilliaco) tra cittadini e territorio rurale.
Il suo iperrealismo esistenzialista lo porta a decostruire sistematicamente gli stereotipi bucolici promossi dal regime fascista fino a pochi anni prima, mostrando al loro posto le fragilità e le contraddizioni di una società in transizione. Non è avverso alla società contadina, vuol solo prendersi gioco delle narrazioni idealizzate che ne davano una rappresentazione monodimensionale, affinando l’osservazione diretta e l’esperienza personale per svelare quelle che dovevano essere le dinamiche reali.
Bisogna tener presente che Moravia visse e pubblicò le sue prime opere proprio sotto il fascismo, ne subì la pressione ideologica che promuoveva una visione romanticizzata della classe dei contadini, un mito del buon selvaggio riportato nel pieno dell’era industriale; qualcosa di simile alle nostalgiche tinte acquerello di certo folk contemporaneo buono per turisti e venditori di salsicce, che di fatto riprendono lo stesso modello ipocritamente e (falsamente) bucolico a cui si rifaceva il fascismo.
La contadina dei manifesti fascisti è sempre alta, bella prosperosa, capelli appena rifatti dal parrucchiere anche se porta il fazzoletto in testa, proprio un tipino da pubblicità del brodo Maggi. Il contadino è di solito fiero, ha la mascella prominente e un fisico asciutto ma prestante, cammina col petto in fuori, la pala e lo zappone in spalla o tirandosi dietro una carriola, oppure è chino sulla terra, che lavora alacremente secondo la mistica della spada e dell’aratro.
Ma com’era nato quello stereotipo e come si era imposto con la politica fascista? Dopo la Prima Guerra Mondiale, l’Italia aveva attraversato una profonda crisi economica, sociale e politica, con disoccupazione, tensioni sociali e la delusione per una vittoria che aveva lasciato molte promesse disattese. La vita in campagna era tutt’altro che un paradiso, tutti lo sapevano: case fredde, povere, piene di spifferi, in cui passava l’acqua dal tetto. Strade che si riempivano di fango alla prima pioggia, percorse per lo più a piedi o tutt’al più in bicicletta. Analfabetismo diffuso e dispersione scolastica ovunque, una miseria che riduceva alla fame famiglie numerose che vivevano di polenta scondita, qualche uovo, un po’ di latte. Non esisteva un sistema sanitario pubblico, l’ospedale più vicino era in città, si moriva di una febbre mal governata.
In quel contesto, il fascismo si era presentato come forza capace di rigenerare la nazione, facendo leva su una retorica che esaltava il passato glorioso e i valori tradizionali, tra cui proprio la campagna intesa come topos fondante per l’identità e di rigenerazione morale.
Si trattava però di un’immagine nostalgica e idealizzata della vita rurale, vista come un’epoca di ordine, lavoro duro, coesione sociale e legame profondo con la terra. Tolta l’autenticità, epurata la narrazione dalle storture, non era rimasta che la cartolina patinata: questa serviva a costruire il mito della continuità storico-culturale con una mitica età dell’oro che legittimasse il regime. Si pensi alla Battaglia del grano per raggiungere l’autosufficienza alimentare, in cui il Duce si fece riprendere a torso nudo colla pancetta a dare due o tre colpi di falce, per enfatizzare il ruolo della campagna come base economica e morale della nazione nel perseguimento dell’autarchia.
La narrazione fascista era lontana anni luce dalla realtà sociale ed economica delle campagne italiane, che continuavano ad essere tormentate da una malnutrizione endemica, povertà, sfruttamento, arretratezza, conflitti sociali, continue violenze dentro e fuori dalla famiglia. Lo stereotipo del bel tempo che fu poteva solo nascondere la polvere sotto il tappeto, presentando un’immagine rassicurante e funzionale alla costruzione del consenso.
Gioverà ricordare che Moravia era sfollato in Ciociaria durante l’occupazione tedesca, vi si era dovuto rifugiare per circa nove mesi con la moglie, appena un decennio prima che uscissero i Racconti romani. In quel periodo aveva avuto l’opportunità di osservare da vicino la vita contadina e di constatarne le condizioni reali, lontano dalla retorica del Duce.
L’esperienza presso la famiglia ospitante in quel villaggio montano di pastori diventa poi materiale di studio per La ciociara, pubblicato nel 1957, e per i Racconti romani del 54-59. Moravia utilizza il territorio non come uno sfondo bucolico, ma come teatro di una rappresentazione cruda della condizione umana sotto la pressione di un sistema oppressivo e disumanizzante. Questo approccio si distacca radicalmente dalle pagliacciate fasciste, il mondo rurale emerge piuttosto come uno spazio complesso, né idealizzato né demonizzato, ma semplicemente umano nelle sue contraddizioni.
L’eredità di questa rappresentazione anti-retorica è stata progressivamente messa in ombra dalla progressiva domesticazione delle campagne avvenuta nella seconda metà del Novecento. Oggi le case certamente sono più salubri, la viabilità implementata, i trasporti potenziati; in campagna si vive molto meglio rispetto agli anni ’50, quel che rimane del bel-tempo-che-fu è proprio un’idealizzazione simile a quella proposta dalla propaganda fascista: quella dei finti balli popolari in costume, col grembiule pulito e ricamato, funzionale alla vendita di salsicce e arrosticini.