Gli scacchi metafora della lotta al Suprematismo.
Pubblicato nel 1867, L’Alfier Nero di Arrigo Boito è una crime story ispirata alla letteratura fantastica europea e internazionale di metà Ottocento, ispirata alla simbologia degli scacchi e con una componente di militanza antischiavile. L’autore, un ex garibaldino che aveva combattuto nella Terza Guerra di Indipendenza, è più conosciuto come compositore e librettista che come autore di prosa. Collaborò con Verdi, conobbe Rossini e altri grandi dell’epoca, si avvicinò al movimento della Scapigliatura milanese attraverso l’amico Emilio Praga. Ne accolse le istanze antiborghesi e cosmopolite, sperimentando un linguaggio musicale e letterario che sfuggiva al provincialismo di alcuni veristi o al patriottismo nazionalista imperante nel periodo post-unitario. Il termine stesso ‘scapigliatura’, proposto da Cletto Arrighi nel 1862, era una libera traduzione del francese bohème e indicava lo stile di vita fuori dalle righe.
Boito dunque si distinse per un’apertura evidente verso le influenze internazionali, nonché per un’intima disponibilità alla sperimentazione che non si preoccupava tanto del successo di pubblico quanto del messaggio e della ricerca che stavano alla base del suo lavoro. Accanto alle opere maggiori, si riservò una nicchia in cui perseguiva le proprie inclinazioni e un’ispirazione autentica, profonda, fuori dagli schemi. L’Alfiere Nero è un racconto che si sviluppa nell’ambito di questa nicchia sperimentale, cosmopolita e socialmente impegnata. È ambientato in una stazione termale svizzera, dove tra gli ospiti dell’albergo si distingue un uomo dalla pelle ‘scura come l’ebano’, che suscita la curiosità dei villeggianti. Un giamaicano nativo di Morant Bay, portato clandestinamente in Europa da ragazzo per essere venduto come schiavo e acquistato da un lord inglese che, affezionato a lui e privo di discendenza legittima, lo aveva designato erede di tutte le sue sostanze. Stabilitosi a Ginevra, l’ormai cittadino inglese viene chiamato Tom (come il protagonista del romanzo di Stowe) dai suoi concittadini. Un soprannome intimamente e garbatamente razzista.
Si deve tener presente che la novella di Boito viene pubblicata per la prima volta nel 1867, due anni dopo l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti, dopo sessant’anni di lotte antiservili animate non solo dalla volontà di riscatto degli schiavi medesimi, ma anche dalle idee cosmopolite dell’Illuminismo, evolute poi nell’internazionalismo socialista. Se contestualizziamo dunque il testo nel momento storico in cui viene messo in circolazione, non possiamo fare a meno di osservarne la componente di critica sociale, dal momento che prende atto di un pregiudizio radicato che l’abolizionismo non è mai riuscito a sradicare: quel razzismo che resiste a ogni buon senso.
Lo statunitense bianco Giorgio Anderssen, sostenitore delle deliranti ma quanto mai popolari teorie sulla presunta inferiorità intellettuale dei neri, lo invita a una partita a scacchi. I due contendenti prendono i pezzi del colore corrispondente alle rispettive carnagioni, creando fin da subito un parallelismo simbolico tra il gioco e la realtà sociale: da quel momento in poi, tutto il racconto viene impostato su questo parallelismo tra il gioco e la vita. Quel che avviene sulla scacchiera non è che un riflesso della vita reale: il bianco si configura fin dalle prime mosse come un giocatore professionista, che ha battuto molti grandi campioni del suo tempo e pratica un gioco ordinato, razionale, scientifico, basato sullo studio e sulla teoria. Il nero, invece, non ha la stessa preparazione formale e si affida principalmente al proprio intelletto naturale, praticando un gioco apparentemente caotico, ma altrettanto efficace, più tattico che strategico, più intuitivo che metodico.
La contrapposizione simbolica tra i due approcci al gioco emerge con chiarezza: da una parte la scienza, lo studio, la teoria; dall’altra l’intuizione e la creatività.
È una metafora potente del confronto tra due visioni del mondo e due concezioni dell’intelligenza umana. In tutto questo scenario si inserisce potente il simbolo dell’Alfiere Nero, che prima della partita cade a terra e si rompe; viene riparato alla meglio con una sutura di ceralacca rossa, che lascia un segno visibile sulla miniatura. Come una ferita sanguinante. Questo dettaglio, apparentemente secondario, assume nel corso della narrazione un valore simbolico centrale.
Il giamaicano sembra più interessato all’aspetto semantico della partita che a quello puramente tecnico: battezza il suo Alfiere Nero come protagonista del suo schieramento, facendone l’eroe simbolico di una sfida che rappresenta per lui le rivolte antischiavili. La sua identificazione con questo pezzo è tale che, dopo averlo perso nel corso della partita, decide di rimetterlo in gioco al momento di promuovere uno dei suoi pedoni: anziché scegliere la donna, come sarebbe logico dal punto di vista strategico, preferisce riprendersi l’Alfiere, rimanendo nel tracciato narrativo e allegorico della sua battaglia.
La partita si protrae per tutta la notte, dopo che gli altri sono andati a dormire. Nel finale, Tom riesce a dare scacco matto al re bianco, dimostrando che la presunta inferiorità intellettuale degli afrodiscendenti è solo un pregiudizio. Tuttavia, la vittoria sulla scacchiera non corrisponde a una vittoria nella realtà: Anderssen, incapace di accettare la sconfitta, reagisce violentemente, estraendo una pistola e sparando alla testa di Tom, uccidendolo sul colpo.
Il messaggio di Arrigo Boito è inequivocabile: sulla scacchiera dell’intelligenza pura ha vinto il nero, ma nel mondo reale il bianco ha fatto valere la sua arroganza, la sua prepotenza, la sua violenza criminale; la partita vera si gioca purtroppo nel mondo reale, dove spesso a prevalere è la brutalità degli assassini.
Dopo la morte del giamaicano però, nel racconto viene a inserirsi l’elemento fantastico, quando il simbolo dell’Alfiere Nero diventa un’ossessione per il criminale: l’uomo, divenuto famoso per il suo gesto contro il presunto ‘cospiratore negro’, inizia a essere tormentato dal ricordo. Trema ogni volta che incontra una persona di colore, temendo di essere riconosciuto, temendo una vendetta. Nel gioco degli scacchi non riesce più a brillare come un tempo e finisce per cadere in rovina. La maledizione di Uncle Tom colpisce il suprematista americano, tormentandolo per il resto dei suoi giorni.
È come se il potere simbolico dell’Alfiere Nero, con la sua ferita rossa… Se leggiamo il racconto col senno di poi, l’ossessione è perfettamente compatibile con un senso di colpa inconscio e un’insicurezza profonda, ma dobbiamo tener presente che il racconto di Boito è del 1867: a quell’epoca ancora non esisteva la psicoanalisi come noi la intendiamo, gli studi sull’inconscio erano ancora a uno stadio di elaborazione prescientifica e influenzavano autori come Poe, Maupassant e altri grandi intellettuali del panorama letterario internazionale.
L’Alfiere Nero colpisce ancora oggi per la sua modernità tematica e stilistica. Boito si distacca dai canoni della narrativa italiana dell’epoca: la competenza scacchistica dell’autore è evidente nella descrizione tecnica del gioco, ma è soprattutto dall’uso metaforico della partita come allegoria del mondo reale che trae la sua potenza evocativa. Contro l’affermazione recente di Kasparov, secondo cui gli scacchi non raccontano storie, le partite non hanno un senso, Boito sembra voler dire esattamente il contrario: le partite sottendono la narrazione delle dinamiche umane e sociali nella mente dei giocatori. Sono persone reali a confrontarsi, in un mondo reale, e attraverso il gioco si parlano l’un l’altro della vita stessa. Un messaggio ancora attualissimo, nonostante il secolo e mezzo che ci separa dalla sua prima pubblicazione.