E’ possibile un sionismo ateo?

Una delle aporie con cui la propaganda contemporanea (sia quella sionista ortodossa, che quella antisionista progressista) ha fatto tabula rasa di quel sionismo socialista, laico, internazionalista e rivoluzionario, che diede impulso alle migrazioni in Terra Santa dei primi utopisti nell’Ottocento e proseguì quasi ininterrottamente fino agli anni ‘30 del XX secolo, è la retorica secondo cui un sionismo laico, o peggio ancora un sionismo ateo, non avrebbe senso, sarebbe un paradosso, addirittura un’aberrazione storica: che un ateo possa rivendicare un terra promessa quattromila anni prima da Dio a una comunità di ebrei religiosi, sarebbe insomma una follia mostruosamente contorta.
Secondo questa logica, come vedremo antistorica e revisionista, gli ebrei laici del movimento sionista socialista non avrebbero avuto il diritto di rivendicare la Terra Santa, poiché rifiutavano le premesse religiose su cui si doveva necessariamente basare tale rivendicazione; affermando questa teoria però, si riduce implicitamente l’identità ebraica alla sola dimensione confessionale, ignorando che l’ebraismo è sì una religione, ma anche una cultura, un’etnia e una storia condivisa: i sionisti socialisti dell’Ottocento non negavano il loro patrimonio culturale, ma lo reinterpretavano in chiave secolare, trasformando elementi dottrinali in un retroterra storico, linguistico, identitario. Questo dava un senso all’approccio laico da parte di intellettuali come Hess, Marx, Borochov e gli altri portavoce del sionismo socialista nel secolo romantico.
La storiografia ha restituito documentazione di una realtà molto più complessa di come viene dipinta dalla propaganda moderna: comunità ortodosse, riformate, mistiche, filosofiche e laiche, hanno tutte partecipato alla storia del popolo d’Israele attraverso secoli di diaspora. Molti dei fondatori del sionismo moderno, come Theodor Herzl o David Ben Gurion, si proclamarono laici senza che ciò diminuisse la loro appartenenza alla comunità ebraica, né la loro comprensione dei problemi che questa comunità affrontava nel loro tempo. Hess era stato allievo di Feuerbach e aveva collaborato a lungo con Marx. I pionieri dei kibbutz e delle prime comunità agricole in Palestina, vedevano il loro progetto come una sintesi tra valori ebraici tradizionali di giustizia (tzedek) e moderne teorie socialiste: non si trattava di una semplice negazione della religione, ma di una sua reinterpretazione in chiave sociale e politica.
Il disconoscimento di un approccio ateo alla dimensione storica, politica, etnica, culturale, dell’ebraismo, è contraddittorio e sconfina nel puro negazionismo.
Il periodo medievale ad esempio vide consolidarsi influenti scuole di filosofi ebrei che utilizzavano la ragione aristotelica per reinterpretare, talvolta mettere in discussione i fondamenti stessi della fede tradizionale; questi pensatori non erano atei nel senso moderno del termine, ma il loro approccio razionalista si pose apertamente in contrasto con l’ortodossia religiosa. Moses ben Maimon, conosciuto come Maimonide (1138-1204), nella sua “Guida dei perplessi”, tentava di conciliare la filosofia aristotelica con la teologia ebraica, subordinando molte credenze tradizionali al tribunale della ragione.
Maimonide sosteneva che molti racconti biblici dovessero essere interpretati solo in un senso allegorico piuttosto che letteralmente, posizione che provocò accese controversie all’interno del mondo ebraico.
Il conflitto fra razionalisti e tradizionalisti ha percorso per secoli le comunità ebraiche della diaspora: i tradizionalisti hanno avuto la meglio, se così si può dire, solo verso la fine del XV secolo, con l’espulsione degli ebrei dalla Spagna nel 1492 e la crescita degli studi cabalistici. Altri filosofi medievali come Levi ben Gershon (Gersonide) e Hasdai Crescas svilupparono ulteriormente il pensiero razionalista, entrando in conflitto diretto con le autorità rabbiniche: questi pensatori dimostravano che l’identità ebraica poteva esistere indipendentemente dall’adesione dogmatica alla fede tradizionale.
Ma il personaggio più vicino al sionismo socialista dell’Ottocento è senza dubbio il filosofo Baruch Spinoza (1632-1677), considerato da molti il più grande filosofo di origine ebraica dopo Maimonide, anche se qualcuno si perita di far notare che, nato nella comunità sefardita di Amsterdam, Spinoza fu scomunicato nel 1656 per le sue orribili eresie. Eppure le idee di Spinoza hanno profondamente influenzato il pensiero e le credenze dell’ebraismo, aprendo la strada a una concezione sempre più secolare dell’identitarismo ebraico. Spinoza sviluppò un sistema filosofico panteista che identificava Dio con la natura, rifiutando ogni forma di trascendenza divina. Nel “Trattato teologico-politico”, condusse una critica sistematica della Torah utilizzando metodi filologici e storici, anticipando l’esegesi biblica moderna. Questa opera pervenne a una rottura definitiva con la tradizione religiosa, pur mantenendo un profondo interesse per gli aspetti storici e culturali di questo popolo.
Tra i movimenti che hanno portato a una secolarizzazione dell’ebraismo si dovrebbe menzionare poi l’Haskalah, detta anche illuminismo ebraico, sviluppatasi nel XVIII secolo, un movimento aperto a contaminazioni ma capace di conservare sempre una propria identità. Moses Mendelssohn (1729-1786), considerato il padre dell’Haskalah, promosse l’integrazione degli ebrei nella società europea mantenendo al contempo la loro identità culturale; la sua traduzione della Torah in tedesco e i suoi scritti filosofici, tentarono di conciliare la tradizione ebraica con i valori dell’Illuminismo europeo.
Mendelssohn sosteneva la separazione tra religione e stato, anticipando molte posizioni del liberalismo moderno. La sua influenza si estese a generazioni di intellettuali ebrei che abbracciarono la modernità senza rinunciare completamente alle loro radici culturali.
Heinrich Heine (1797-1856), poeta e scrittore tedesco di origine ebraica, pur convertitosi formalmente al cristianesimo per motivi pratici, mantenne sempre un rapporto complesso e critico con l’ebraismo; le sue opere testimoniano una coscienza laica che anticipava molti temi del nazionalismo ebraico moderno. Non si può non parlare poi dello stesso Karl Marx (1818-1883), figlio di ebrei convertiti, la cui critica dell’emancipazione ebraica, pur contenendo elementi problematici, era profondamente secolarizzata. Marx vedeva nell’ebraismo principalmente una funzione sociale ed economica piuttosto che religiosa, anticipando interpretazioni materialiste dell’identità etnica.
Nell’Europa orientale del XIX secolo, molti intellettuali ebrei abbracciarono ideologie socialiste e anarchiche, entrando in conflitto diretto con l’autorità religiosa tradizionale. Il Bund, movimento socialista ebraico fondato nel 1897, rappresentava una forma di nazionalismo ebraico completamente secolarizzato che rifiutava sia l’assimilazione, sia il sionismo religioso. Scrittori come Aleichem e Peretz svilupparono una letteratura yiddish che, pur radicata nella cultura ebraica tradizionale, esprimeva valori sostanzialmente laici e modernisti; questi autori contribuirono a creare un ebraismo indipendente dalle istituzioni religiose. Figure storiche legate al sionismo Novecentesco, come David Ben-Gurion, Golda Meir e molti altri leader del movimento operaio sionista erano esplicitamente atei o agnostici.
L’esperimento dei kibbutz rappresenta forse il momento più alto di questa parabola dell’ebraismo laico, empirico ed eretico: queste comunità agricole, collettiviste, reinterpretavano i valori ebraici di giustizia sociale in chiave completamente secolare, creando una forma inedita di ebraismo post-religioso. Negli Stati Uniti, una componente significativa della popolazione ebraica si identifica come culturalmente o etnicamente ebrea senza praticare la religione. Sondaggi recenti indicano che oltre il 20% degli ebrei americani si dichiara ateo o agnostico, mantenendo tuttavia un forte senso di appartenenza culturale ed etnica. Figure come Noam Chomsky, Susan Sontag, Philip Roth e molti altri intellettuali contemporanei si fanno portavoce di una tradizione consolidata che mantiene legami con la tradizione ebraica attraverso la memoria storica e i valori etici, piuttosto che nell’osservanza religiosa.
In sostanza, la tradizione (non poi così moderna, come abbiamo visto) dell’ebraismo laico, dimostra che l’innovazione e la reinterpretazione etnico-linguistica, filosofica, non rappresentano vere e proprie rotture con l’ebraismo tou-court, ma sono piuttosto evoluzioni naturali, divergenti dall’ortodossia confessionale, di una cultura che ha sempre dimostrato capacità di adattamento e rinnovamento; i sionisti socialisti non tradirono l’ebraismo, ma piuttosto continuarono una tradizione di pensiero critico che aveva attraversato i secoli molto prima di Marx ed Hess.
E’ dunque possibile un sionismo ateo? Non solo è possibile, ma in questo momento, sullo scenario della tragedia che si sta consumando in Medio Oriente, è necessario.
Si dovrebbe supportare quella parte dell’ebraismo, dentro e fuori Israele, che rifiuta le posizioni del radicalismo etnico e religioso, favorendo un ritorno al sionismo delle origini, internazionalista, laico, socialista. Quel sionismo rurale, utopistico, che per quasi cent’anni ha dato impulso al radicarsi delle prime comunità egualitarie in Terra Santa, prima ancora che l’Occidente desse impulso alla formazione di un nazionalismo palestinese in chiave apertamente antisocialista e antisionista. Vedremo poi in altra sede (merita un approfondimento a parte) come fare lo stesso dall’altra parte del muro della vergogna.
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