Tempo ciclico e tempo lineare secondo Jack London
In questo breve racconto, tagliente come la lama di un coltello, Jack London descrive, osservatore distaccato durante la sua esperienza di minatore in Alaska, un modello culturale ancora diffuso in quel tempo tra i popoli nativi, in cui l’anzianità veniva contestualizzata in una prospettiva arcaica, di panteistica simbiosi con la natura: il protagonista, presumibilmente un anziano degli Athabaskan, nativi del continente americano che entrarono spesso in relazione (non di rado, come vittime) coi cercatori d’oro, sceglie di non seguire la sua tribù durante una migrazione stagionale, convinto che sia giunto il suo momento per lasciare questo mondo.
London ragiona su un paradigma in cui la natura non è ‘materna’ col singolo, non ha a cuore le sorti dell’individuo ma la sopravvivenza del gruppo. Nelle culture nomadi dell’Alaska, l’anziano stesso interiorizza questa logica ed è il primo a metterla in pratica: Koskoosh ascolta i preparativi della partenza, consapevole del suo destino ma non ribelle ad esso. Non è rassegnazione la sua, non disperazione, ma comprensione del ciclo vitale in cui perpetuare la vita è il senso della vita stessa. Conseguenza della vita è la morte.
La filosofia dietro a questo ragionamento è che l’anziano mantiene la propria dignità proprio attraverso l’accettazione consapevole del ruolo che gli compete nel grande schema della natura. London non empatizza, non si identifica nel vecchio, sospende con grande rispetto il giudizio sulle tradizioni dei popoli nomadi con cui entra in relazione, si limita a descriverli in modo distaccato, cercando di comprenderne le ragioni.
Solo questo dovrebbe essere più che sufficiente a dimostrare l’assenza di una visione ‘suprematista’ in lui, il fatto stesso di poter descrivere con tanta cura nel dettaglio i costumi e le usanze di quelle comunità dimostra che nella sua esperienza tra i cercatori d’oro intrattenne rapporti non occasionali con le comunità dei nativi, rapporti di coesistenza sul territorio, nei quali non cerca di imporre la propria sovrastruttura morale al loro stile di vita.
Non è darwinismo sociale il suo, ma osservazione partecipante. Si limita a prendere atto del modo in cui queste comunità non negassero la necessità della morte, affrontandola piuttosto come parte integrante della vita stessa. Un approccio che a noi oggi può sembrare brutale, primitivo, ma va contestualizzato nelle tradizioni di quelle popolazioni nel primo Novecento.
Interessante sarebbe confrontare questo racconto con la visione degli anziani proposta da Ada Negri in Italia, poco più di un decennio dopo London. Feliciana, la protagonista del Posto dei vecchi, ha interiorizzato la logica opportunista del capitalismo: la sua filosofia dritta e logica secondo cui chi è inutile è dannoso, chi è dannoso deve morire, riflette l’applicazione dei principi di efficienza economica alle relazioni familiari.
L’autrice descrive una società in cui l’anziano viene accudito finché possibile dai familiari, poi però lo si affida a luoghi appositi che apparentemente forniscono cura, ma in realtà rimuovono gli anziani dalla vista e dalla coscienza sociale: la narrazione di Ada Negri evidenzia l’emergere di una crudeltà mascherata da solidarismo, dietro le istituzioni della modernità. L’ospizio rappresenta una soluzione che permette alla società di mantenere l’illusione della compassione, mentre pratica una forma di abbandono più sottile e non meno definitiva di quello descritto da London, tanto che l’anziana donna si lascia morire appena viene a sapere della decisione presa dai figli, su pressione delle nuore.
La differenza cruciale è che mentre il modello ‘primitivo’ mantiene se non altro una propria coerenza filosofica, quello civilizzato si fonda in quegli stessi anni su un’ipocrisia strutturale: nel racconto di London, l’abbandono di Koskoosh rappresenta un atto collettivo ritualizzato che preserva la coesione del gruppo nomade: la decisione non è individuale ma comunitaria, basata su criteri oggettivi di sopravvivenza che tutti i membri della comunità comprendono e accettano come inevitabili; questo modello implica una concezione della persona anziana come parte integrante di un organismo sociale più ampio: l’individuo non ha diritti inalienabili alla sopravvivenza, ma il suo valore viene misurato in relazione al benessere collettivo.
Paradossalmente, questa apparente durezza preserva una forma di rispetto. Il modello presentato dalla Negri, apparentemente valorizza la vita individuale attraverso istituzioni assistenziali, ma in realtà crea nuove forme di alienazione: l’anziano improduttivo è di fatto relegato in ghetti sanitari dove può essere tenuto in una condizione sospesa tra vita e morte, senza disturbare il funzionamento della società, in un’esistenza crepuscolare che lo priva di relazioni autentiche.
Nel modello dei nativi americani il tempo è ciclico, la morte non viene considerata una sconfitta della vita, ma un suo completamento necessario. Il modello occidentale moderno, al contrario, concepisce il tempo come lineare e progressivo, dove la morte rappresenta sempre una sconfitta da ritardare il più possibile. Questa concezione genera un’ossessione della longevità: l’anziano viene mantenuto in vita indipendentemente dalla qualità dell’esistenza o dal significato sociale della sopravvivenza.
Il risultato è spesso una forma di accanimento terapeutico che in alcuni casi prolunga l’agonia, piuttosto che preservare la dignità. L’anziano nelle democrazie occidentali possiede formalmente diritti politici: può votare, può candidarsi, può esprimere opinioni, ma viene sistematicamente marginalizzato nei processi decisionali. Le politiche pubbliche sono di fatto formulate da e per le generazioni produttive, trattando gli anziani come beneficiari passivi di servizi piuttosto che come cittadini attivi. La morte di Feliciana e quella di Koskoosh, da questo punto di vista, si equivalgono.
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