Induzione all’astensione e Froda Costituzionale.

In questi giorni si sta dibattendo in modo acceso intorno all’incitamento, da parte della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e altre personalità di spicco nel governo italiano, a boicottare il Referendum per impedire il raggiungimento del quorum. L’opposizione ha organizzato anche iniziative di protesta per manifestare contro questo tipo di atteggiamento, giudicato pericolosamente irresponsabile dalla Presidente del Partito Democratico Ellie Schein. Date le numerose derive polemiche e la confusione normativa nel pubblico dibattito, ritengo di fare cosa gradita chiarendo l’origine e lo sviluppo di della questione, per meglio comprenderne le implicazioni.
Non si tratta solo di induzione all’astensione, ma in un senso più ampio di quella che in giurisprudenza viene definita Froda Costituzionale, ovvero l’incompatibilità fra il ruolo istituzionale di chi dovrebbe garantire il rispetto della Costituzione, e una propaganda astensionista che ne viola l’Art. 46, in cui si parla del voto come di un diritto/dovere.
L’origine di questo dibattimento, è in una serie di precedenti giurisprudenziali che vado a riassumere brevemente. Il referendum sulla scala mobile del giugno 1985 è stato più volte chiamato in causa dalla stampa in questi giorni, come un precedente giuridico fondamentale per comprendere meglio il divieto di induzione all’astensione nel diritto elettorale italiano. La controversia di allora, scaturita dall’invito di Bettino Craxi a non recarsi alle urne, ha portato a un approfondimento di quanto espresso dall’Art. 98 del Testo Unico delle Leggi Elettorali per la Camera dei Deputati, successivamente esteso alle consultazioni referendarie dalla legge 352 del 1970. La Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, pronunciandosi nel 1985, ha chiarito definitivamente che il divieto di indurre all’astensione si applica anche in occasione dei referendum, stabilendo un principio che tutela la genuinità del voto e la neutralità delle istituzioni pubbliche. Di fondamentale importanza, nel dibattito pubblico in questi giorni pre-elettorali, è l’Art. 48 della Costituzione italiana, dove si stabilisce che:
“il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico”.
Questa formulazione, apparentemente semplice, implica che la qualificazione del voto come “dovere civico”, se pure non comporta sanzioni giuridiche per l’astensione, crea in ogni caso un vincolo morale e politico pregnante per coloro che ricoprono funzioni pubbliche. La dottrina costituzionalista ha tradizionalmente interpretato questa disposizione come espressione di un principio di partecipazione democratica, che va oltre la mera facoltà individuale o libertà di esprimere un parere politico personale. L’astensione, pur costituendo un diritto implicito del cittadino, assume connotazioni diverse quando viene promossa da soggetti investiti di pubbliche funzioni, poiché si configura potenzialmente come una contraddizione rispetto al dovere istituzionale di favorire la partecipazione democratica.
Il concetto di Froda alla Costituzione (così viene chiamato in termini giurisprudenziali) trova applicazione quando comportamenti formalmente leciti risultano sostanzialmente contrari ai principi costituzionali fondamentali. Nel caso specifico dell’induzione all’astensione da parte di pubblici ufficiali, si realizza una situazione paradossale in cui chi ha il dovere istituzionale di garantire il funzionamento delle istituzioni democratiche, adotta comportamenti che ne minano l’efficacia. La Costituzione può essere violata non solo attraverso atti formalmente contrari alle sue disposizioni, ma anche mediante comportamenti che, pur rispettando la lettera della norma, ne tradiscono lo spirito e la finalità.
Nel contesto referendario, l’invito all’astensione da parte di figure istituzionali si configura come una forma di froda costituzionale perché utilizza l’autorevolezza derivante dalla funzione pubblica per perseguire obiettivi contrari al principio di partecipazione democratica sancito dall’articolo 48. La pronuncia della Corte di Cassazione del 1985 ha stabilito un principio di fondamentale importanza, chiarendo che l’articolo 98 del Testo Unico elettorale si applica integralmente anche alle consultazioni referendarie.
La Corte ha sottolineato che il legislatore ha inteso “impedire e punire lo svolgimento di un’attività politica svolta da colui che eserciti una pubblica funzione”, evidenziando la necessità di evitare “l’efficacia suggestiva e l’influenza persuasiva o cogente” derivante dall’esercizio di pubblici poteri.
Questa interpretazione si fonda su due elementi essenziali: l’abuso della funzione pubblica e l’effetto di condizionamento sui cittadini. Il primo elemento richiede che il comportamento avvenga nell’esercizio o comunque utilizzando le prerogative derivanti dalla funzione pubblica. Il secondo elemento considera l’impatto che l’autorevolezza istituzionale può avere sulle scelte elettorali dei cittadini. I casi verificatisi in occasione dei referendum del 2011 e del 2016 hanno confermato la persistente attualità della problematica, evidenziando come la questione si presenti ciclicamente nel dibattito pubblico italiano. Gli esposti presentati in entrambe i casi contro figure istituzionali di primo piano, dimostrano che la linea di demarcazione tra legittima espressione politica e abuso della funzione pubblica rimane, oggetto di interpretazione.
La giurisprudenza successiva al 1985 ha progressivamente chiarito che la violazione dell’articolo 98 richiede la dimostrazione di un abuso concreto della funzione pubblica, non limitandosi alla mera espressione di un’opinione politica. Tuttavia, questa precisazione non ha risolto la tensione tra libertà di espressione e responsabilità istituzionale. La dichiarazione da parte della Presidente del Consigio Giorgia Meloni, di recarsi al seggio elettorale senza ritirare le schede referendarie rappresenta una forma di astensione sostanziale, che merita particolare attenzione giuridica: dal punto di vista tecnico infatti, questo comportamento produce gli stessi effetti dell’astensione tradizionale, ovvero il mancato contributo al raggiungimento del quorum necessario per la validità del referendum.
La distinzione tra astensione formale e sostanziale assume rilevanza non solo sotto il profilo statistico, ma anche dal punto di vista della percezione pubblica e dell’impatto simbolico. Il recarsi fisicamente al seggio elettorale può essere interpretato come un gesto di rispetto formale verso le istituzioni, ma il rifiuto di partecipare effettivamente alla consultazione mantiene inalterati gli effetti pratici dell’astensione.
L’applicazione dell’articolo 98 del Testo Unico elettorale al caso specifico richiede l’analisi di diversi elementi costitutivi. Il primo elemento, relativo alla qualità di pubblico ufficiale, risulta indiscutibilmente soddisfatto. Il secondo elemento invece, quello dell’abuso di funzione pubblica, presenta maggiori criticità nell’interpretazione:
La dichiarazione pubblica di un comportamento di astensione sostanziale, può infatti configurare un abuso della funzione pubblica, quando utilizza la visibilità e l‘autorevolezza derivanti dalla carica istituzionale, per influenzare le scelte elettorali dei cittadini.
Il comportamento in esame solleva questioni che vanno oltre la mera applicazione delle norme elettorali, investendo il principio costituzionale di leale collaborazione tra le istituzioni: questo principio, pur non essendo espressamente codificato nella Costituzione italiana, è stato elaborato dalla giurisprudenza costituzionale come elemento fondamentale del sistema democratico. L’invito all’astensione da parte di figure istituzionali può configurare una violazione di questo principio, poiché comporta l’utilizzo delle prerogative istituzionali per perseguire obiettivi contrari al corretto funzionamento delle istituzioni democratiche.
La questione assume particolare rilevanza quando l’invito proviene da soggetti che hanno prestato giuramento di fedeltà alla Costituzione e di adempimento dei propri doveri nell’interesse esclusivo della Nazione. L’effetto di condizionamento prodotto dall’invito all’astensione da parte di figure istituzionali si estende oltre la singola consultazione referendaria, investendo la legittimità complessiva del sistema democratico.
Quando l’autorevolezza derivante da una funzione pubblica viene utilizzata per scoraggiare la partecipazione democratica, si crea un precedente che può minare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni.
La problematica assume dimensioni ancora più significative in considerazione del fatto che il referendum rappresenta uno strumento di democrazia diretta particolarmente prezioso per il coinvolgimento dei cittadini nelle scelte politiche fondamentali. L’invito all’astensione da parte di figure istituzionali può essere interpretato quindi come un tentativo di limitare l’efficacia di questo strumento democratico. L’analisi della problematica evidenzia l’opportunità di un intervento legislativo che chiarisca definitivamente i confini tra legittima espressione politica e abuso della funzione pubblica nel contesto delle consultazioni referendarie.
Una riforma in questo senso potrebbe prevedere disposizioni specifiche per le figure istituzionali di vertice, stabilendo obblighi di neutralità durante le campagne referendarie, limitandosi al dibattimento intorno ai temi del referendum, ma non spingendosi fino al sabotaggio delle consultazioni medesime. La ricerca di un equilibrio tra il diritto alla libertà di espressione e le responsabilità derivanti dall’esercizio di funzioni pubbliche, è un tema particolarmente caldo in questo momento storico, caratterizzato da tensioni crescenti. Nel caso specifico dell’induzione all’astensione, questo equilibrio deve tener conto sia della necessità di preservare il pluralismo politico, sia dell’esigenza di tutelare la genuinità e l’efficacia degli strumenti di partecipazione democratica.
La soluzione di questa tensione non può prescindere da una riflessione più ampia sul ruolo delle istituzioni nella società contemporanea e sulle aspettative che i cittadini ripongono nei confronti di coloro che ricoprono funzioni pubbliche. In questo contesto, la responsabilità istituzionale non si limita al rispetto formale delle norme, ma si estende all’adozione di comportamenti coerenti con i principi costituzionali medesimi e con le finalità delle stesse istituzioni democratiche.
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