Siberia. Luogo di deportazione o ‘Terra Promessa’? Cenni storici e legislativi

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La colonizzazione
della Siberia

Cenni storici e legislativi
Articolo di Jenny Griziotti-Kretschmann

Giornale degli Economisti e Rivista di Statistica
Serie III, N.46/6 Giugno 1913, pp. 567-603

Questo articolo ha più di cent’anni, è stato scritto quattro anni prima del 1917 e dunque va contestualizzato, altrimenti non possiamo capirlo. Fin dalle prime righe s’intuisce che la colonizzazione russa della Siberia sia ancora un fenomeno in atto, leggiamo delle immani infrastrutture necessarie a domesticare un ambiente ostile, inospitale, selvatico, ma ricco di risorse naturali e perciò quanto mai desiderabile. L’autrice fa risalire l’inizio della colonizzazione militare a un gruppo di Cosacchi guidato dal leggendario atamano Ermak, qualche centinaio in tutto, che nel 1583 assoggettò un piccolo regno tataro chiamato Isker o Siberia, sul fiume Irtisch. Tutto il territorio circostante sarebbe stato chiamato da allora con quel nome. Dopo aver soggiogato altri piccoli regni là intorno, i Cosacchi di Ermak li consegnarono al trono di Giovanni il Terribile, per godere della sua protezione. Non era insolito che queste confraternite di razziatori si ponessero sotto la protezione di potenze più grandi, nei secoli a venire la collaborazione tra Cosacchi e Impero Russo si articolerà tra alterne vicende, non senza rivolte sedate nel sangue e feroci repressioni da parte degli Zar. Ad ogni modo, nel XVI secolo parte da Mosca un movimento coloniale da parte di mercanti e industriali, sotto la protezione del governo russo, movimento che si spinge sempre più verso oriente. Si tratta di un’occupazione militare, che inizialmente fatica a procedere verso sud per la resistenza strenua opposta dai popoli nomadi che vi abitavano.

La conquista militare non procedette secondo un piano preordinato, ma in modo piuttosto caotico: man mano che le armi assoggettavano le popolazioni locali e i Cosacchi costruivano le loro fortificazioni per mantenere una posizione dominante, s’imponevano tributi da pagare a chi abitava in quelle regioni. Intorno a questi forti vennero a confluire i coloni e le attività economiche, portando allo sviluppo delle principali città che divennero a loro volta anche centri amministrativi. In questa fase gli esploratori venivano trasportati sul luogo a spese dell’erario, ricevevano dallo Stato uno stipendio come coloni e forniture di grano per il sostentamento materiale, Nello stesso tempo, a partire dal XVII secolo venne perseguita anche una colonizzazione agricola, inviando sul posto quei contadini che erano letteralmente proprietà dello stato (o dei privati), assegnando anche loro dei terreni da coltivare per sé stessi. Il contadino doveva corrispondere allo stato un quinto del raccolto, oltre a provvedere ad alcune corvee per la costruzione di infrastrutture. In cambio ottenevano dei vantaggi, ad esempio l’esonero dai tributi per i primi tre anni e diverse facilitazioni per il viaggio. Tuttavia l’espansione russa nei territori presidiati con le armi, richiedeva un apporto di nuova linfa da parte di un numero sempre maggiore di coloni, ragion per cui si favorì in ogni modo anche l’emigrazione dei pregiudicati, disadattati, esiliati. A partire da Pietro il Grande, si venne a sostituire sempre più spesso l’esilio con la prigionia e i lavori forzati, per lo più nella realizzazione di infrastrutture pubbliche. Verso la fine del Settecento si aggiunse a queste categorie quella dei servi della gleba di cui i padroni volessero per qualche motivo liberarsi.

A questi flussi migratori promossi e gestiti dallo stato si deve aggiungere un’altra importante realtà, che era quella della migrazione spontanea, non di rado clandestina. Questa era spesso legata all’oppressione politica ed economica dei contadini, degli operai, degli artigiani ed era costituita da tutti coloro che per sfuggire alle penose condizioni di vita delle classi servili attraversavano gli Urali per rifarsi una vita. Si muovevano talvolta in gruppi che una volta giunti in Siberia, fondavano piccoli insediamenti, villaggi, comunità rurali, in grado di sottrarsi per un po’ al controllo del governo. In un territorio tanto vasto non mancava l’opportunità di nascondersi a sguardi indiscreti, vivendo in pace secondo le proprie regole con una nuova identità. Il fenomeno raggiunse verso la fine del Seicento una proporzione tale da interessare addirittura la metà dei contribuenti di tutto l’Impero Russo, creando un problema per l’erario statale che reagì perseguendo questo tipo di migrazione e ordinando (per lo più invano) ai fuoriusciti di rientrare nel loro paese di origine. Migravano spontaneamente in Siberia anche i rifugiati politici e gli eretici, che in patria sarebbero stati condannati a morte per le loro affiliazioni a sette e comunità religiose, oltre ai disertori dell’esercito zarista.

Man mano che procede la colonizzazione, le migrazioni illegali diventano prevalenti e creano un problema sempre più serio per le casse dello Stato russo, molti rifugiati si registrano fra i nativi dei luoghi in cui si insediano e questo è un fenomeno piuttosto interessante, poiché testimonia se non altro un rapporto di convivenza pacifica e collaborativa tra nativi e profughi. A nulla servono i passaporti speciali e i controlli delle frontiere, i migranti illegali rappresentano la maggior parte dei pionieri che si va a insediare nei luoghi più lontani, inospitali e inaccessibili. Il fenomeno è cresciuto al punto che lo Zar non ha potuto richiamare tutti i fuoriusciti, poiché avrebbe creato un’emergenza sociale cui non sarebbe stato in grado di fare fronte e quindi in alcuni casi il governo stesso ha finito per assegnare le terre rimaste disponibili, pur senza fornire i sussidi come per i migranti legali. In altre parole, anche la migrazione illegale finiva per rivelarsi funzionale all’economia russa poiché consentiva di risolvere parte del disagio in patria. Nell’Ottocento vengono emessi sempre più bandi per la colonizzazione oltre gli Urali, intorno al lago Baikal e poi nelle regioni dell’estremo oriente. Speransky, governatore della Siberia, lascia un memoriale in cui riferisce il suo tentativo di popolare le regioni rimaste scarsamente abitate deportandovi forzati ed esiliati, un progetto che sostanzialmente non portò a nulla poiché questi ultimi tendevano a non costituire nuove famiglie e contribuivano alla formazione di gruppi sociali che scoraggiavano ulteriormente le famiglie di contadini, operai e artigiani. Viene sempre più promossa la migrazione libera.

Da segnalare che fino al 1822 non era consentito in teoria trasferirsi da una provincia all’altra dei territori colonizzati, ovvero praticare forme di migrazione attraverso la Siberia, né per i cittadini provenienti dalla Russia europea, né tantomeno per gli aborigeni che videro in tal modo limitate la loro libertà di movimento. Verso la metà del secolo viene istituita una Commissione per la misurazione dei terreni demaniali disponibili nelle quattro regioni siberiane, un’operazione molto difficile da portare a termine sia per la vastità del territorio, sia per la mancanza di censimenti pregressi accurati cui rapportare le nuove rilevazioni, identificando gli insediamenti non ratificati dal governo. Questa commissione finì per registrare il numero dei nativi assegnando loro una quantità stabilità di terra per ogni cittadino maschio, il resto si considerava terra disponibile per i coloni russi. Possiamo facilmente immaginare il margine di arbitrato che questi procedimenti comportavano e la tendenza a limitare in questo modo ogni possibile incremento demografico delle popolazioni locali. I coloni inoltre, potevano contare sul sussidio statale, sull’esenzione iniziale da ogni obbligo fiscale e persino sulle forniture di scorte ‘vive e morte’ per la sopravvivenza delle famiglie, tutti privilegi che non spettavano ovviamente ai nativi.

Per le regioni dell’Amur e dell’Estremo Oriente, si dovette aspettare la pacificazione tra Cina e potenze europee, in seguito alla quale il governo ripartì dalle spedizioni militari per fortificare le zone più lontane sottomettendo le popolazioni indigene. Venne creato a questo scopo un reggimento di Cosacchi apposito, nel quale si arruolarono anche numerosi contadini desiderosi di emigrare. E’ in questo scenario complesso che nel 1861 avviene una svolta nella politica dello Zar, l’emancipazione dei contadini dalla servitù della gleba che li legava ai loro padroni dal Cinquecento. Da quel momento in poi, cambiarono nella sostanza anche le condizioni dei coloni siberiani, che pur avendo acquistato la libertà personale restarono sempre usufruttuari di terreni in comodato, per riscattare i quali dovevano prestare servizio volontario di corvee nei lavori alle opere pubbliche. In altri casi veniva concordato un riscatto in moneta da sanare in cinquant’anni di lavoro, il beneficio della proprietà sarebbe stato dunque goduto solo a partire dalla generazione successiva a quella del decreto, ferma restando la competizione dei precedenti padroni per assicurarsi i terreni più fertili e in posizione più favorevole, che portava comunque a privilegi di classe in favore di questi ultimi.

Per la precisione, l’aristocrazia terriera fece pressioni sul governo per far sì che il prezzo delle terre coltivabili nelle regioni più sfavorevoli fosse più alto del loro valore effettivo, rendendoli per questo indesiderabili da un punto di vista imprenditoriale e appetibili solo per il riscatto da parte dei contadini liberati. Questo comportò che la metà dei servi affrancati si ritrovò a possedere di fatto un terreno insufficiente alla sopravvivenza delle loro famiglie. Il valore del terreno era fissato sul valore del riscatto dalla servitù previsto per contadini prima dell’affrancamento, ragion per cui di fatto non era cambiato molto con l’editto del 1861, l’indipendenza era solo nominale e i contadini dovettero comunque prestare servizio anche per i precedenti padroni se volevano sopravvivere. Il prezzo delle terre si rivelò talmente alto, da costringere i contadini a contrarre debiti spaventosi che si accumulavano negli anni. La crisi agraria venne risolta con l’assegnazione di sempre nuove terre nelle regioni da colonizzare, ovverosia favorendo l’emigrazione (legale e illegale) in Siberia. Le grandi migrazioni avvenute nella seconda metà dell’Ottocento era dunque il risultato di una politica agraria fallimentare e del fallimento di quell’emancipazione solo nominale, che aveva paradossalmente peggiorato le condizioni di vita nella maggior parte di quei servi che avevano acquistato una libertà più nominale che sostanziale.

Un problema non secondario nell’editto del 1861 era dato dal divieto imposto ai contadini di uscire dal cosiddetto Mir, che era una forma di proprietà collettiva legata al territorio di provenienza, studiata per scaricare sulla collettività il peso di eventuali mancanze nella contribuzione fiscale da parte di singoli elementi della comunità. Se in pratica uno non pagava le tasse, la sua quota veniva di fatto pagata dalla collettività e questo legava l’emigrazione da un certo luogo subordinata a un parere favorevole da parte di almeno 2/3 della popolazione locale e comunque non prima di aver saldato i propri obblighi fiscali per non farli ricadere sulla comunità. Ora il problema dell’affrancamento formale della servitù, era che comunque l’uscita dal Mir continuava ad essere subordinata al parere della comunità e questo lasciava sempre ai vecchi padroni un’influenza sulle scelte di quelli che non erano più loro servi, ma restavano sempre legati agli obblighi nei confronti della collettività. Pur diventando proprietario di un nuovo lotto, il contadino restava corresponsabile degli obblighi fiscali nel territorio di provenienza. E’ per questo che nel 1889 viene introdotta l’opportunità di chiedere una licenza dal Mir dopo aver saldato gli obblighi fiscali o pagato una sorta di sanatoria per le inadempienze. L’autorizzazione all’emigrazione tuttavia rimane in carico a una Commissione governativa. Questi provvedimenti dovevano servire a incentivare l’emigrazione legale scoraggiando il movimento dei clandestini, obiettivo che tuttavia non venne raggiunto.

I migranti clandestini del resto si trovavano ad affrontare un viaggio duro, pericoloso, su strade disagevoli, sotto un clima spesso impietoso, trasportando con sé carri, masserizie, donne, vecchi e bambini e senza alcuna facilitazione da parte del governo. Talvolta potevano trovare un riparo temporaneo nelle baracche, esponendosi comunque al rischio molto alto di contrarre malattie infettive, in mancanza di baracche disponibili dormivano all’aperto in condizioni climatiche spaventose. Arrivati a destinazione la maggior parte dei clandestini si rivolgeva al granaio degli Altai e si iscrivevano tra gli aborigeni, i quali li accoglievano volentieri come manodopera a basso costo. Altri prendevano possesso di terre in misura anche maggiore alla loro immediata necessità in prospettiva della futura crescita demografica. Altri ancora proseguivano per il Kirghistan, il Turkestan e le regioni del Caucaso, rimettendosi alle decisioni delle amministrazioni locali per il riconoscimento del loro status. I numeri dell’emigrazione illegale arrivano anche a 80.000 unità all’anno, molto alto per l’epoca.

A quel punto si venne a porre il problema dell’impatto che avrebbe avuto la costruzione della ferrovia Transiberiana sul fenomeno migratorio. Venne istituita una Commissione per valutare i problemi sollevati dal potenziamento dei trasporti, sempre tuttavia nella prospettiva che il flusso migratorio non costituisse in realtà un problema per il governo centrale ma al contrario, potesse comportare uno sviluppo economico nelle regioni colonizzate e un minor disagio sociale nella madre patria. In conseguenza di ciò la stessa Commissione valutò la migrazione, anche quella clandestina, come un fenomeno positivo per l’Impero russo in espansione. Con lo sviluppo delle nuove tecnologie nell’agricoltura e la loro introduzione in un paese rimasto ancora arretrato da quel punto di vista, la quantità di terreno minima per la sopravvivenza iniziò a cambiare anche in base al tipo di coltivazione e al modo di coltivare che vi si impiegava, ovvero all’equipaggiamento dell’azienda agricola. Il numero di terre coltivabili a disposizione diminuisce e molti contadini si trovano obbligati a prendere in affitto le terre vicine al loro terreno, ma questo a sua volta comporta l’aumento dei prezzi e la speculazione degli intermediari, contribuendo a peggiorare le condizioni di vita dei contadini.

Nei primi anni del Novecento l’emigrazione in Bessarabia, Tavriceskaja, Ekaterinoslav, oltrepassano il milione di unità all’anno, ma l’adeguamento tecnologico comporta una minor richiesta di manodopera e questo contribuisce a dare un ulteriore impulso alla migrazione clandestina in Siberia. Le nuove disposizioni in fatto di politica agraria contribuiscono ad aumentare le disparità sociali favorendo la crescita di una piccola borghesia nel settore agricolo a danno del basso proletariato. Fondamentale rimane ancora in questo periodo l’assemblea della comunità, cui viene assegnata a volte la proprietà collettiva di un terreno, questo costituisce un tratto caratteristico della cultura e della storia russa che meriterebbe un approfondimento. L’ultima fase del processo migratorio si ha con la legge del 1908 che al contrario impedisce il rientro in patria degli emigranti senza un’autorizzazione governativa, dando per ‘disponibili’ le terre abbandonate dai contadini due anni dopo la loro partenza. In conclusione, la politica migratoria dell’Impero Russo ha favorito senz’altro una colonizzazione solo in parte controllata nei territori della Siberia, senza tuttavia risolvere il problema della crisi agraria determinata dall’aumento demografico nella madre patria. Si è dunque avuta un’espansione del territorio russo, un consolidamento della presenza russa nei territori dell’intera Siberia, ma una grande difficoltà nel censire la popolazione e nel gestire una tale espansione con un sistema ancora sostanzialmente feudale, basato ancora in grande misura sulle concessioni governative. In ultima analisi, questa crescita ed espansione si è verificata a danno delle popolazioni native, discriminate nella concessione delle terre e dei sussidi, nonché limitate nella prospettiva di crescita demografica. Si è trattato insomma di un’espansione coloniale non dissimile per molti versi a quella degli Europei nel Nord America, che ha comportato la sottomissione dei nativi e il contenimento della loro presenza sul territorio.

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