Quando la beffa dice il vero. Vendetta sociale in Maupassant
Iniziamo subito col dire che Maupassant è cresciuto a Tourville-sur-Arques, in Normandia: quando parla di quella regione quindi, parla di luoghi che conosce molto bene per cultura e dinamiche sociali. Una tradizione fortemente rurale, provinciale, che gli offre terreno fertile per mettere in evidenza l’ipocrisia e la morale dei benpensanti, l’attaccamento ai valori materiali, le tensioni sociali tra padroni e contadini. Verso la fine dell’Ottocento la Normandia era anche teatro dello scontro fra la modernità portata dalla rivoluzione industriale, e le tradizioni del passato per cui si ritrovano a coesistere i conflitti di classe della modernità con le tradizioni del passato feudale.
Avevamo incontrato la Normandia, in particolar modo una satira sulle tradizioni matrimoniali e le feste ad alto tasso alcolico ancora caratteristiche di quella regione della Francia, anche in un altro racconto, quello dell’uomo costretto a sposare uan donna per essersi infilato involontariamente nella sua camera, tornando ubriaco da una festa danzante. In quell’occasione Maupassant aveva parlato proprio degli epici matrimoni normanni, come di una tradizione radicata della Francia rurale.
Qui l’autore va oltre, toccando due temi fondamentali, quello degli scherzi goliardici in occasione dei matrimoni, e quello dell’interesse economico attribuito ai proprietari di terre, che nemmeno durante la prima notte di nozze si stancano di vegliare sulle loro proprietà: l’immagine dello sposo che si alza dal letto (dove lo aspetta trepidante la moglie, appena unitasi a lui in matrimonio) per imbracciare il fucile e sparare ai presunti boscaioli di frodo che teme stiano rubando la sua legna, ha già di per sé il tono della satira sull’avidità dei proprietari terrieri.
Naturalmente è proprio su questo che giocano gli amici e compagni dello sposo, non tutti appartenenti alla sua stessa classe sociale, i quali inscenano il furto notturno della legna, per avere l’occasione di beffarsi del padrone, legandolo a un albero e mettendogli al collo della selvaggina cacciata nel suo terreno quella notte stessa.
Una beffa più carnascialesca che nuziale, in cui si ravvisa anche una componente di vendetta per quello che appare come un atteggiamento attaccato all’avere più che preoccupato dell’essere. Lo sposo si presenta nel racconto come un tirchio, un avaro, che persino nei momenti di convivialità festiva si manifesta pronto a imbracciare il fucile per scacciare i bracconieri dalla sua terra.
Gli ignoti aggressori, lasciano l’uomo legato per tutta la notte nel suo terreno e spariscono senza lasciarsi riconoscere, verrà ritrovato solo al mattino eguente; lo scherzo ovviamente, viene subito qualificato come tale e pertanto a nessuno viene in mente di considerarlo un atto di aggressione perseguibile dalla legge, sono cose che si fanno negli epici matrimoni normanni, scherzi goliardici insomma, niente più.
Non si svolgono indagini quindi, data l’occasione festiva e il clima non quotidiano delle celebrazioni la cosa passa in cavalleria, pur senza perdere il suo valore intimidatorio: lo stesso atto, in un altro momento, sarebbe stato interpretato come una minaccia aperta, un messaggio di ammonizione, ma trattandosi del culmine di una festa nuziale, assume il tono di una beffa innocente.
Innocenza che però non va confusa con l’ingenuità: l’atto in sé rimane significativo, un’aggressione in piena regola, giustificata dall’eccezionalità del contesto, che non perde il suo sottotesto. La società normanna sta mandando allo sposo un chiaro messaggio: pensa più alla famiglia che ai beni materiali, vedi se puoi goderti un po’ la vita insieme ai tuoi cari invece di star sempre lì a preoccuparti della tua legna, della tua terra, della tua selvaggina.