“Noi, fratelli, siamo di stirpe cosacca”. L’inno nazionale Ucraino

Ascolta la prima e seconda parte del podcast tratto dall’articolo

Noi siamo della
stirpe dei Cosacchi

L’inno nazionale ucraino
Articolo di Federico Berti

Questa breve riflessione prende avvio dal testo dell’inno nazionale ucraino, scritto nel 1862 dal nazionalista romantico Pavlo Platonovyč Čubyns’kyj, musicato dal sacerdote greco-cattolico Mychajlo Verbyc’kyj ed eseguito per la prima volta da un coro al Teatro Ucraina di Leopoli due anni più tardi. Adottato dalla Repubblica Popolare Ucraina durante la Rivoluzione del 1917, bandito dall’Unione Sovietica e reintrodotto solo con la caduta di questa, la sua reintroduzione fu in realtà graduale nel senso che inizialmente non includeva le parole ma solo la musica. Cosa piuttosto insolita questa, non si è mai verificata nello stesso modo per nessun altro inno, sarebbe come dire che la Marsigliese non si potesse cantare in pubblico parole e musica ma solo eseguire in forma strumentale: si vede che quel testo richiedeva un dibattito più approfondito per essere approvato, era cioè considerato da una parte di ucraini ‘controverso’ nel senso letterale del termine. Tutto questo per dire che l’inno nazionale dell’Ucraina affonda le radici in un’ideologia marcatamente nazionalista formatasi e divulgata dagli intellettuali romantici a partire da metà dell’Ottocento, messa al bando durante il periodo dell’internazionalismo sovietico e tornata a manifestarsi dopo il crollo dell’Urss con la rinascita del nazionalismo. Fin qui nulla di straordinario, ogni stato nazionale nasce sulle ceneri di uno stato precedente e gli inni si fanno portatori delle ideologie che hanno reso possibile la loro indipendenza. Per quale motivo dunque è così importante l’inno nazionale ucraino, per noi che lo ascoltiamo quasi due secoli dopo la sua composizione? Il motivo è da ricercarsi nel testo di Čubyns’kyj dove si afferma in modo inequivocabile: “Noi, fratelli, siamo di stirpe Cosacca”. Scritto proprio così, stirpe Cosacca.

Un verso poetico può passare inosservato se lo recita un menestrello in una bettola di terz’ordine, tra bevitori ubriachi di ritorno dal giorno di mercato, ma non se viene ratificato e approvato da un governo nazionale con apposita legge. Specialmente se consideriamo che la nº 602-IV del 6 marzo 2003 promulgata dal parlamento ucraino per approvare il testo dell’inno nazionale ucraino, è intervenuta su alcuni dei versi ottocenteschi modificandone delle parti, ma senza toccare quella dichiarazione tanto significativa quanto controversa. “Noi, fratelli, siamo di stirpe Cosacca“. Questo verso implica alcuni concetti chiave, in primo luogo l’appartenenza a un gruppo etnico preciso, ovverosia il discendere per linea di sangue da una stirpe comune. In secondo luogo, l’idea che questa stirpe comune identificabile su base etnica debba essere proprio quella dei Cosacchi. Non è compito di queste note mettere in discussione l’intero impianto delle ideologie nazionaliste, siano ucraine o di altri paesi europei e non. Quel che a noi interessa prendere in considerazione è un dettaglio preciso, il fatto cioè che fra tutti popoli che hanno attraversato, edificato, governato l’Ucraina nel corso dei secoli, ne sia stato scelto uno in modo particolare, quello dei Cosacchi. Scelta che non può non avere conseguenze e impone di approfondire quanto meno la conoscenza di quello che viene apertamente indicata come un popolo in cui la nazione intera si identifica. Bisogna chiedersi dunque chi fossero questi Cosacchi, da dove venissero, cosa li unisse e se sia (peraltro) davvero possibile considerarli un popolo nel senso che normalmente diamo a questa parola.

Innanzi tutto risponderemo che i Cosacchi non sono un popolo, né possono rivendicare una comune appartenenza etnica. Il termine è di origine turco-tatara e starebbe per ‘nomade’ o più genericamente ‘uomo libero’. Veniva utilizzato nelle cronache della Repubblica di Novgorod e nel Codex Cumanicus per indicare confraternite di soldati mercenari non soggetti a vincolo feudale e dunque liberi di scegliere per chi combattere, non tanto per un riconoscimento esterno quanto per l’essersi costituite come gruppi di uomini in armi pronti a difendere sul campo la loro libertà. Non hanno mai costituito un popolo unitario, ma comunità variamente composte cui si univano ogni sorta di avventurieri, rinnegati, esuli, fuggitivi. Alle ipotesi di una discendenza da questo o quel gruppo etnico, si oppongono quelle che nei Cosacchi vedono semplicemente delle organizzazioni militari dedite alla caccia, alla pesca, al saccheggio e al mercenariato. Tra queste vi furono anche dei gruppi che rivendicavano una componente etnica, come ad esempio i Cosacchi Zaporoghi di origine slava che arrivarono a costituire nel XVI secolo entità proto-statali nel territorio dell’attuale Donbass. Lo stesso è accaduto in diverse altre regioni dal Kazakistan alla Siberia Orientale, una delle strategie di adattamento che questi gruppi militari adottavano era quella di liberare e fortificare dei territori, creando strutture difensive a partire dalle quali fosse possibile evolvere dal nomadismo a una condizione più stanziale. In questi casi, prima o poi questi uomini ‘liberi’ finivano per scendere a patti con potenze più grandi di loro tramite accordi scritti.

Non erano nemmeno sempre nomadi, al contrario non è mancata loro l’occasione di stanziarsi entro un’area definita da accordi politici e ‘concessioni’ territoriali da parte di principi, re e imperatori. Proprio come i Normanni in Europa, che dalla condizione di pirati e razziatori potevano ricavarsi di volta in volta zone in cui avevano consolidato la loro influenza arrivando persino a ottenere in concessione dei feudi, perdendo così l’autonomia e l’indipendenza, rientrando a pieno titolo nella competizione per il potere. La storia dei Cosacchi passa anche attraverso questo tipo di evoluzione. Di cosa stiamo parlando, dunque? Di mercenari che talvolta venivano pagati in terre, concessioni, miniere, terreni. Da cosa erano accomunati? Non dall’appartenenza a un popolo unitario, dal momento che molti di questi gruppi accoglievano e assorbivano volentieri contributi dall’esterno senza badare troppo alla provenienza. Troviamo truppe di Cosacchi combattere contro la Russia e a fianco della stessa, li ritroviamo impiegati come truppe ausiliarie in battaglia, corpi speciali inquadrati negli eserciti regolari, o come milizie paramilitari addette al controllo della pubblica sicurezza. Le ritroviamo a fianco dei rivoltosi bolscevichi nel ’17 e poi nei ranghi dell’Armata Bianca nuovamente a fianco dello Zar, non tutti insieme ma a gruppi: un po’ di qua, un po’ di là. Alcune di queste comunità davano maggiore importanza a un’identificazione su base etnica, altri no. Si tratta piuttosto di corpi militari che nascono e muoiono indipendentemente l’uno dall’altro in diverse regioni dell’Asia Centrale e Orientale, in diversi periodi storici, talvolta sovrapponendosi o confluendo in gruppi più grandi, altre volte combattendosi l’uno con l’altro dai due schieramenti di un medesimo conflitto.

Per comprendere al meglio questa sostanziale disunità basti pensare che al tempo della colonizzazione dell’Estremo Oriente Russo, avvenuta nella seconda metà dell’Ottocento, si formò un corpo dei Cosacchi dell’Ussuri verso la costa asiatica del Pacifico, vent’anni dopo la nascita di un altro corpo sull’Amur. Si erano sciolti da poco i Cosacchi dell’Azov, confluiti in quelli di Kuban che resteranno in attività fino al 1920. Un altro corpo era rimasto attivo appena trent’anni sul Caucaso, mentre nell’Astrachan, sugli Urali, nell’Orenburg, nella Siberia Centrale, sul fiume Don, erano in attività fin dal XVI secolo. Altri nascevano e morivano poco dopo come il gruppo del Mar Nero, quelli del Caucaso, quelli del Volga e così via. Erano gruppi che si auto-governavano attraverso un’assemblea presieduta dall’Atamano, le cui funzioni erano quelle di un comandante militare. Rispondevano solo a lui e alle deliberazioni dell’assemblea. Le confraternite dei Cosacchi parteciparono attivamente alla colonizzazione della Siberia e dell’Estremo oriente Russo ponendosi al servizio dello Zar, ma la loro insofferenza verso qualsiasi autorità esterna li metteva spesso in condizione di rivoltarsi contro lo stesso imperatore, il quale prima rispose proibendo la libera elezione dell’Atamano e imponendone loro uno scelto dagli ufficiali dell’esercito, poi arrivò a sciogliere direttamente le bande armate inquadrandole nell’esercito regolare. Verso la fine del Settecento possiamo dire che in Ucraina non vi fossero più bande di mercenari a piede libero, dato che questi combattenti erano stati di fatto inquadrati come cavalleria leggera nell’esercito imperiale russo. In tempi più recenti, troviamo gruppi di Cosacchi a fianco dell’Armata Rossa e ne troviamo a supporto delle truppe naziste, cosa che addirittura comportò una controversia storica poiché dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale questi collaborazionisti vennero rimpatriati e giustiziati dal governo sovietico. Oggi i discendenti di queste bande mercenarie sono circa tre milioni e si occupano per lo più di caccia, pesca, agricoltura, qualche volta arruolati come guardie forestali ma nulla più.

Tornando all’inno nazionale Ucraino, a quali Cosacchi fa dunque riferimento il testo di Čubyns’kyj? A quelli dell’Amur, del Baikal e dell’Ussuri, che coltivarono il progetto di un’Ucraina Verde preparando il terreno alla colonizzazione e ripopolazione dell’Estremo Oriente Russo? A quelli del Caucaso e del Kazakistan, che si batterono sia contro i Tatari, sia contro lo Zar? Molto probabilmente il poeta pensava in modo assai più circostanziato all’Etmanato Cosacco di Zaporizia, ovvero a quello stato che si batté contro la Polonia, contro Turchi e Tatari di Crimea e contro lo stesso Zar. Un’entità statale esistita fra il 1679 e il 1764, per poco più di un secolo, risolta in una guerra fratricida fra Cosacchi anti-russi e filo-russi, stanziati sulle due rive opposte del fiume Dnepr, soppressa poi dall’Imperatrice Caterina. O forse a quei ribelli ucraini che sotto Andrej Škuro si batterono a fianco dello Zar contro l’Armata Rossa durante la guerra civile? Non è ben chiaro di quali Cosacchi parli il poeta ucraino nel testo dell’inno nazionale. Per capirlo meglio dovremmo conoscere più a fondo la sua opera di ricercatore, quando nell’Ottocento diresse la Società Geografica dell’Impero Russo Sud-Occidentale studiando gli usi e costumi, il dialetto, il folklore dei popoli stanziati in Ucraina, Bielorussia e Moldavia. Studiò le credenze popolari, superstizioni, proverbi, aneddoti, fiabe, il calendario, le canzoni associate con i rituali di primavera, il ciclo agrario e i canti religiosi. Il testo da cui verrà poi tratto l’inno è ‘Shche ne vmerla Ukraïna’, ovvero l’Ucraina non è ancora morta. Scritto cent’anni dopo la dissoluzione dell’Etmanato, alla luce dei suoi studi sul folklore nazionale, sembra evidente a quali Cosacchi stia pensando l’autore quando afferma che il popolo Ucraino sia di stirpe Cosacca e per quale motivo l’adozione del testo abbia richiesto molti anni di dibattimento parlamentare prima di essere approvata.

Non è il caso di soffermarsi sulle implicazioni che sembrano anticipare dottrine di tipo suprematista, quello che noi dovremmo oggi chiederci è quale sia il progetto politico richiamato dal testo dell’inno e in particolar modo dal richiamo a quella ‘stirpe Cosacca‘. Parliamo infatti di una cultura nata da bande di fuoriusciti, militari di professione ma recalcitranti a qualsiasi inquadramento militare, che rispondono soltanto al loro comandante diretto, l’Atamano. Corpi militari irregolari dunque, crudeli e spietati mercenari che hanno prestato servizio con la stessa disinvoltura per diversi schieramenti, partecipando alla pulizia etnica nell’Estremo Oriente come ai pogrom antiebraici. Di un popolo nel quale il nazionalismo aristocratico del secolo romantico ha voluto vedere le motivazioni per giustificare guerre fratricide lungo tutto il confine dell’impero russo. Parliamo di bande armate impiegate come milizia irregolare nei corpi di pubblica sicurezza per reprimere le rivolte popolari, in modo sostanzialmente simile a come venivano usate le squadre di teppisti e picchiatori nelle peggiori dittature di tutto il mondo. Se questa è l’identità in cui si vuole identificare il popolo Ucraino, che tuttora innalza statue a personaggi inquietanti come il nazista Stepan Banderas, allora dovremmo seriamente domandarci come un progetto politico di questo tipo si possa inserire armoniosamente in un’Europa democratica e garantista. Ma questo è un altro problema, sul quale torneremo.


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