Jack Johnson e il bruto delle caverne

Jack London, Il bruto delle caverne. Audioracconto. Voce narrante Federico Berti

L’elemento più originale nel racconto “Il bruto delle caverne” (tradotto anche come “La sfida”) di Jack London è senza dubbio nella componente umana e sentimentale che precede e accompagna la tragedia pugilistica. L’amore puro tra i protago-nisti Joe Fleming e Genevieve, insieme alla familiare e grottesca figura dei coniugi Silverstein, genitori adottivi di lei, costituisce il vero nucleo emotivo del racconto. La relazione tra i due giovani innamorati viene descritta con toni delicati, evidenziando l’innocenza e la sincerità del sentimento. La concretezza del loro progetto di convivenza fuori dal matrimonio denota peraltro una scelta anticonformistica nell’America del primo Novecento, mentre la promessa strappata da Genevieve al ragazzo di lasciare la boxe dopo quest’ultimo incontro costituisce uno dei segnali narrativi che preludono fin dall’inizio al finale tragico.

London dedica ampio spazio alla descrizione della progettualità comune, dei sogni condivisi, della vita domestica che desiderano costruire insieme. Joe viene presentato come un giovane responsabile, che vede nel pugilato un mezzo per garantire sicurezza economica alla famiglia: morto il padre, si prende cura della madre e della sorella battendosi sul ring, trasformando la violenza sportiva in atto di dedizione e sacrificio. Questa caratterizzazione trasforma l’incontro finale da semplice evento sportivo in tragedia, amplificando l’impatto del racconto attraverso il contrasto tra le aspirazioni domestiche e la brutalità del mondo pugilistico.

A questa prospettiva personale si affianca una critica distaccata ma inequivocabile del sistema professionistico che in quegli anni stava prendendo piede. London analizza con precisione sociologica il pugilato per soldi, caratterizzato dallo spropositato giro di denaro delle scommesse e dallo sfruttamento sistematico dei combattenti. La commercializzazione dello sport, con il suo apparato di scommesse, promotori e spettatori, trasforma quello che potrebbe essere un confronto atletico controllato in un meccanismo potenzialmente letale. La pressione economica e sociale spinge i pugili ad assumere rischi eccessivi in una tensione verso l’agonismo esasperato, mentre il pubblico e l’industria dell’intrattenimento rimangono sostanzialmente indifferenti alle conseguenze umane.

Non che prima del Novecento non si morisse tirando pugni sul ring, si trattava anzi di una disciplina che evolveva da pratiche per molti secoli relegate nell’illegalità proprio per l’alto rischio che ricadeva sui combattenti, spesso provenienti dalle classi inferiori della società, un’arte gladiatoria residuale. E’ proprio per questo suo aspetto brutale che erano state introdotte le Broughton’s Rules nel 1743, le London Prize Rules del 1838 e poi le Queensberry Rules del 1867, imponendo man mano le corde di protezione intorno al ring, la proibizione dei colpi sotto la cintura, l’uso dei guantoni, il conteggio dei trenta secondi, il divieto di colpire l’avversario a terra, il limite dei tre minuti a round e molti anni più tardi il limite dei quindici round. La novità al tempo di Jack London è che si stava da oltre un secolo normalizzando in Inghilterra un’arte che prima era relegata ai bassifondi, ma che fin dalla fine del XVIII secolo aveva iniziato ad appassionare le classi più elevate per via del giro di scommesse e delle borse in denaro sempre più elevate. Questo avviene dunque nell’Ottocento, la spettacolarizzazione della boxe e il suo sviluppo come un’industria dell’intrattenimento.

A cambiare è la posta in gioco insomma, e il sistema di produzione che c’è dietro, per questo si inizia a protestare per la brutalità degli incontri e si pretendono regole più restrittive per evitare l’esito fatale che potevano avere gli incontri: finché morivano anonimi pugili nelle sale clandestine, non era un problema pubblico, ma se morivano in un sistema di scommesse legali, con tanto di capo della polizia in prima fila, questo diventava un problema per chi ci scommetteva sopra, non tanto per chi ci aveva lasciato la pelle; questa la critica fondamentale di Jack London all’evoluzione della boxe in quegli anni.

La preparazione sentimentale del racconto serve quindi un duplice scopo narrativo: amplifica l’impatto tragico della conclusione e fornisce una critica sociale implicita al sistema che riduce i giovani a merce da sfruttare per il divertimento altrui. Jack London mantenne una posizione in parte contraddittoria sul pugilato durante la sua carriera giornalistica: lavorò come corrispondente sportivo per diversi giornali, coprendo incontri importanti dell’epoca, tra cui il famoso match tra Jack Johnson e Jim Jeffries nel 1910, proprio nel periodo in cui scrisse la storica triade di novelle dedicate alla boxe. Nei suoi servizi giornalistici, London mostrava preoccupazione per la trasformazione del pugilato da sport individuale a spettacolo commerciale dominato dalle scommesse e da interessi economici sempre più condizionanti.

La sua critica si concentrava principalmente sul divario crescente tra i promotori che si arricchivano attraverso gli incontri e i pugili che rischiavano la salute e spesso la vita per compensi spesso, tranne una ristretta elite di campioni, relativamente modesti. Nello stesso tempo però, manteneva un rispetto genuino per l’aspetto atletico e la dimensione umana del pugilato, essendo stato pugile lui stesso in gioventù. La sua era in realtà una critica al capitalismo applicato allo sport, piuttosto che una condanna assoluta del pugilato stesso, coerentemente con la sua più ampia visione politica e la sensibilità verso le condizioni delle classi lavoratrici.

Di particolare interesse la sua cronaca del match tra l’afrodiscendente Jack Johnson e il suprematista bianco Jim Jeffries del 4 luglio 1910 a Reno, Nevada, uno degli eventi sportivi più significativi e controversi dell’epoca. London descrisse l’incontro con una combinazione di ammirazione tecnica per Johnson e preoccupazione per le implicazioni sociali dell’evento: riconobbe apertamente la superiorità pugilistica del ‘negro’, definendo la sua vittoria come inevitabile dato il divario tecnico e fisico tra i due combattenti. Jeffries, ritiratosi dal pugilato da diversi anni, era stato richiamato speci-icamente per sfidare il campione nero con l’obiettivo dichiarato di riconquistare il titolo per la supremazia della razza bianca.

London criticò l’atmosfera di tensione razziale che circondava l’incontro e contemporaneamente il modo in cui lo stesso Johnson faceva sfoggio del lusso, adattandosi perfettamente alla mentalità capitalistica del tempo. Espresse preoccupazione per le conseguenze sociali della vittoria di Johnson, temendo potesse provocare disordini e violenze contro la popolazione afroamericana. L’autore osservò inoltre come l’evento fosse stato trasformato in un baraccone mediatico, con enormi somme di denaro investite nelle scommesse e nella promozione. Criticò il modo in cui la dimensione sportiva era stata subordinata agli interessi economici e alle tensioni razziali, trasformando quello che doveva essere un confronto atletico in uno spettacolo con implicazioni sociali e politiche ben più ampie.

La copertura giornalistica di questo evento si riflette direttamente nella struttura delle novelle letterarie dedicate da Jack London alla boxe, in particolare Una bistecca e Il bruto delle caverne. La tattica dell’assorbimento prolungato dei colpi seguita dal contrattacco finale, messa in pratica dai protagonisti dei due racconti Joe Fleming e Tom King, era effettivamente una caratteristica distintiva dello stile di Johnson, che combinava resistenza fisica eccezionale con intelligenza tattica superiore.

London trasferisce questa strategia ai suoi protagonisti bianchi come elemento di caratterizzazione tecnica realistica, dimostrando una conoscenza approfondita delle strategie pugilistiche; la scelta narrativa, oltre a risuonare in quel momento storico di grande tensione come un omaggio al campione afrodiscendente, riflette la concezione londoniana del conflitto come prova di resistenza e determinazione piuttosto che di aggressività immediata, un contributo alla visione di una boxe meno brutale e più strategica. La resistenza prolungata diventa metafora della lotta quotidiana per la sopravvivenza.

Il paradosso tragico sta nel fatto che questa strategia, efficace per Johnson nella realtà, conduce invece alla sconfitta i protagonisti londoniani. Questa inversione suggerisce una riflessione critica sulla trasferibilità delle tattiche individuali e sulla complessità delle dinamiche competitive nel pugilato professionalizzato dell’epoca. La sconfitta dei personaggi bianchi che adottano lo stile del campione nero assume così una dimensione simbolica che trascende il mero confronto sportivo, diventando commento sulla condizione sociale del pugile e sulla fragilità delle speranze individuali di fronte ai meccanismi spietati del capitalismo industriale.

Condividi