Perché non parliamo mai di ‘homme fatale’

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Lo stereotipo della femme fatale incide in modo discriminatorio, lo sappiamo, nella rappresentazione delle donne, in ogni epoca storica: questa figura archetipica, che riduce la donna a un’agente di corruzione morale, associando l’erotismo all’inganno e alla manipolazione, deve il suo potere alla capacità di asservire l’uomo caduto vittima del suo fascino, cosa che lei naturalmente fa per sedurlo, intrappolarlo, stabilire su di lui un controllo.

Non sto a ripercorrere per l’ennesima volta miti e leggende che abbondano di figure femminili come Circe, Pandora, Ecate, nelle quali possiamo identificare il modello più arcaico su cui è venuto a conformarsi lo stereotipo moderno. Anche Eva e Lilith, vi hanno contributo come retroterra psichico profondo, riconfermato dall’educazione religiosa. Non parliamo poi della dannazione femminile ricaduta sulla donna, portatrice di insane passioni che allontanano l’uomo da Dio durante il medoevo, le Melusine o le ammaliatrici dei romanzi cavallereschi che irretivano irresistibili incantesimi d’amore.

Nel secolo romantico s’iniziano a vedere casi d’impegno civile in direzione ostinata e contraria, pensiamo anche solo a George Sand che problematizza il concetto di desiderio femminile e nel 1837 promuove una Pedagogia della Liberazione, attaccando frontalmente l’educazione come strumento di oppressione implicita e identificando nell’istruzione la radice stessa delle dinamiche abusive. Vorrei potermi soffermare ancora sulle autrici di quel periodo, figure come George Eliot, Charlotte Brontë, Emily Dickinson, più avanti Virginia Woolf e tante altre che hanno smontato lo stereotipo della femme fatale osservandolo dall’interno, rappresentando il femminile nella sua complessità, fuori dagli stereotipi moralizzanti andro-centrici.

Proviamo a porre adesso il problema inverso, ovvero come il topos della femme fatale venga percepito nel Novecento e quale spazio gli sia stato riservato nella letteratura, nella musica e nel cinema degli ultimi cent’anni, per capire se si tratti di un motivo obsoleto, o se non sia tuttora condizionante, e chiediamoci per quale motivo non risulti parimenti rappresentato il suo corrispettivo maschile, se esista cioè un topos dell’homme-fatale, quanta incidenza questo possa eventualmente avere nella produzione letteraria, musicale, cinematografica, plastica e visiva contemporanea.

Lo stereotipo sembra essere stato ampiamente riformulato nella seconda metà del Novecento, in risposta all’ansia sociale dell’uomo rispetto all’indipendenza economica e all’emancipazione intellettuale delle donne, conseguente la crescita dell’occupazione e il suffragio universale. I film noir in cui compare il personaggio della femme fatale rappresentano una sorta di cautionary tale (racconto ammonitore) sulle donne ambiziose e lavoratrici che possono sopraffare gli uomini, non essendo a questi economicamente soggette. Le ansie maschili vengono tradotte dunque sullo schermo per scoraggiare l’autonomia lavorativa (quindi finanziaria) delle donne, persuadendole a lasciarsi ridurre nei ruoli domestici tradizionali.

Naturalmente, nessuno nega la coesistenza di narcisisti patologici, seduttori e manipolatori, nel mondo maschile, attenzione: non dobbiamo confondere lo stereotipo colla realtà, ma chiederci a quale realtà sia funzionale lo stereotipo. La risposta a questa domanda è che si può constatare empiricamente una prevalenza, anche piuttosto significativa, della femme fatale nella produzione culturale contemporanea, mentre il corrispettivo inverso non ha mai acquisito lo stesso livello di riconoscibilità o centralità narrativa.

Il termine stesso di homme fatale non è mai entrato nel linguaggio comune, nell’immaginario popolare, nell’agenda mediatica, pur essendovi personaggi che presentano quel tipo di configurazione narrativa: seduzione, manipolazione, ambiguità morale, fascino pericoloso e capacità di destabilizzare il protagonista o il sistema sociale. Non il semplice assassino, lo stupratore, ma l’uomo che riesce ad avere un tale influsso sulla donna, da condizionarne la volontà spingendo lei stessa all’autodistruzione. Questo tipo di personaggio è meno frequente, nella produzione culturale degli ultimi cent’anni, rispetto al suo equivalente femminile.

Certo la seduzione femminile è stata associata per millenni all’inganno e alla rovina morale, mentre il maschio, quando lo si vuol rappresentare come ‘cattivo’, è più spesso identificato nel tipo del sadico, violento, crudele. Non solo ma il maschio seduttore risulta più spesso celebrato che temuto, mentre la donna seduttrice è più comunemente guardata con sospetto o moralismo. Solo un’impressione? Andiamolo a verificare sulla base dei dati concreti.

Indici e database dei film, dei libri, della musica e delle arti figurative prodotte negli ultimi cent’anni, permettono di effettuare ricerche analitiche per parole chiave come femme fatale, seduction, manipulative woman e simili. Analisi testuali automatizzate su letteratura, consentono di identificare frequenze di determinati archetipi. Vari progetti di ricerca sono già stati portati avanti confermando che i termini correlati al topos declinato al femminile, appaiono molto più frequentemente nei titoli, nelle sinossi e nelle recensioni cinematografiche, rispetto agli equivalenti maschili. Personaggi femminili con tratti di manipolazione, seduzione e pericolo sono più frequentemente etichettati in quel modo rispetto a uomini con tratti simili. Le parole chiave come manipolatore, seduttore, narcisista compaiono più spesso in contesti psicologici o criminali (es. serial killer) che in contesti erotici o narrativi.

In altre parole l’industria culturale contemporanea tende a etichettare la donna come femme fatale, ma non usa un equivalente linguistico per l’uomo . Questo denota una sorta di ‘asimmetria semantica’ che rivela senza dubbio un pregiudizio di genere: una donna seduttiva è più facilmente punibile, moralmente ambigua, e quindi compatibile con narrazioni conservatrici. La seduzione maschile è al contrario più incentivata che demonizzata, mentre esistono pochi modelli culturali consolidati per raccontare il maschio come ‘villain erotico’, e questo si traduce in minor interesse editoriale/cinematografico.

Gioverà tenere a mente che l’Università di San Diego ha pubblicato un rapporto nel 2023 in cui segnalava nella produzione cinematografica americana una presenza femminile pari al 18% nella regia, 20% nella sceneggiatura, 25% nella produzione esecutiva, 34% a livello di produzione, dati che si mantengono piuttosto stabili dal 2010 e che rivelano un’egemonia culturale ancora sostanzialmente andro-centrica, che può ragionevolmente spiegare il prevalere di uno stereotipo sull’altro. Nell’editoria (libri, giornali, riviste), solo il 29% dei direttori editoriali e il 40% degli autori è donna. Non parliamo poi della musica, dove solo il 22% dei cantanti, il 2% dei produttori musicali e il 5% dei compositori di colonne sonore per il cinema sono donne. Getty Museum e Hammer Museum hanno infine reso pubblico che anche nelle arti visive, appena il 13,5% delle opere acquitate fra 2008 e 2018 sono di artiste donne.

Sarebbe senza dubbio di grande interesse poter approfondire questo tipo di indagine relativamente ad altri paesi nel mondo, per quanto essendo il modello americano trainante in tutti i paesi satellite della Nato, in modo particolare quelli interessati dal piano Marshal nella seconda metà del Novecento, che hanno ricevuto una fortissima impronta condizionante con investimenti cospicui nell’industria culturale del territorio, sia purtroppo molto probabile riscontrare una struttura altrettanto andro-centrica del sistema di produzione, che motiva (se pure non giustifica) il prevalere di uno stereotipo sull’altro.

La mancanza di donne nei ruoli decisionali si traduce in rappresentazioni culturali distorte, dove il punto di vista maschile diviene predominante. La figura della femme fatale è del resto messa in scena principalmente da uomini – salvo rare eccezioni – che ne definiscono l’estetica, il comportamento e il destino narrativo, questo crea una sorta di oggettivazione simbolica: viene cioè osservata, descritta, manipolata da un punto di vista esterno, non è mai veramente un soggetto autonomo. Marionetta, più che personaggio. Al contrario, il cosiddetto homme fatale non viene altrettanto strumentalizzato, perché non incarna paure profonde legate al potere femminile.

La donna insomma teme la violenza fisica dell’uomo, ma non è sempre altrettanto equipaggiata a fronteggiarne quella psicologica. Ne ha meno paura, la ritiene forse più innocua, men che meno se fondata sulla fascinazione, l’erotismo, la seduzione, e questo può essere molto pericoloso, perché poggia a sua volta su un luogo comune non realistico, essendo la figura del maschio seduttivo e manipolatore più comune di quanto non si pensi, fra gli uomini come fra le donne.

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