I neri hanno la musica nel sangue? Stereotipi e razzismo inconsapevole

Ascolta il Podcast di questo articolo

Il razzismo secondo Walter Lippman e Jennifer Eberhardt

Si può essere razzisti in tanti modi. Spesso lo siamo inconsapevolmente, assecondando tutta una serie di stereotipi sociali che nascono proprio dal pensiero unico del pregiudizio razziale. Uno stereotipo è uno stampo cognitivo che riproduce l’immagine mentale di una persona, o in altre parole un quadro mentale che abbiamo in testa, si veda a questo proposito Walter Lippman e il suo contributo del 1923 alla fenomenologia dell’opinione pubblica. Quando noi attribuiamo un fattore sociale o culturale alla natura biologica di un individuo o di un gruppo, quello è uno stereotipo razzista. La psicologa americana Jennifer Eberhardt ha dimostrato come il pregiudizio razziale sia ancora vivo nella maggior parte degli americani bianchi, che continuano ad associare involontariamente, anche quando a parole si proclamano antirazzisti, i neri alle scimmie. Un pregiudizio ratificato dalla sociobiologia dell’Ottocento, nella quale si vedevano i negroidi come l’anello di congiunzione evolutivo tra l’uomo bianco e il primate. La psicologa della Stanford University dimostra che il pregiudizio è talmente radicato nella cultura moderna e contemporanea, che spesso vi ricadiamo senza rendercene conto.

Stereotipi inconsapevoli sull’Africa

Quando ad esempio affermiamo che i neri hanno ‘la musica nel sangue’, stiamo assecondando un pregiudizio razziale. Le culture tradizionali africane non vivevano immerse nella musica più di quanto non fosse per le popolazioni rurali europee (bianche) prima della rivoluzione industriale e dell’esodo dalle campagne. L’etnomusicologia ha documentato il ruolo centrale della musica nelle tradizioni popolari di molte regioni italiane, in cui la musica, il canto e il ballo erano una presenza costante e quotidiana nella vita delle persone. Nel guardare all’Africa, noi troveremo ritmi diversi, melodie, scale musicali diverse, ma non un diverso atteggiamento rispetto alla musica come fenomeno culturale. L’Africa è un continente immenso. Comprende 54 stati nei quali vive un miliardo di persone che parlano più di 2000 lingue diverse, la maggioranza parla almeno due lingue. Vedere in tutta questa enorme varietà linguistica e culturale una cultura unitaria, arretrata e selvaggia, è un pregiudizio razziale: tutti gli africani sanno danzare perché ‘loro’ hanno il ritmo nel sangue, sono passionali, sensuali, istintivi, dimostrano meno dell’età che hanno. Tutti stereotipi razzisti. Quelle che noi chiamiamo danze ‘afro’ sono in realtà repertori elaborati per lo più nel periodo della decolonizzazione, per nobilitare le danze locali cercando elementi di unificazione nelle varie culture che compongono il complesso mosaico dei popoli in Africa, portandoli poi sul palcoscenico.

La comunità musicale afro-americana

Per capire da dove nasce il pregiudizio secondo cui i neri hanno la musica nel sangue, noi dobbiamo guardare alla storia, non alla biologia. Il rapporto che hanno avuto le comunità afro-americane con la musica per più di tre secoli, era condizionato dalle leggi razziali e dalla condizione della schiavitù, che impediva loro qualsiasi pratica culturale che non fosse il canto, e per la precisione non un canto qualsiasi, ma il canto liturgico o il canto di lavoro.: il primo, per il suo ruolo nell’inculturazione e nell’indottrinamento religioso, il secondo per il suo contributo alla produttività dei forzati. In realtà quelle comunità vivevano immerse nella musica europea, ascoltavano le bande musicali europee, le orchestre da ballo dei bianchi, ma non potevano imparare loro stessi a suonare uno strumento perché questo era loro proibito. Per tre secoli il canto è stata la sola possibilità che i neri avevano di esprimersi, nella quale hanno condensato ogni loro naturale desiderio di comunicare attraverso le arti. Con l’abolizione della schiavitù, il primo divieto che venne a cadere fu proprio quello di partecipare all’istruzione pubblica e prendere lezioni private di strumento, istruirsi nella lettura, nella scrittura, nelle arti liberali, nella musica. Dal 1865 i neri iniziano a studiare anche grazie all’aiuto di quei maestri bianchi che impartivano loro volontariamente lezioni gratuite per contribuire all’integrazione e allo sviluppo di una reciprocità culturale. Si formano le prime orchestre miste, viene a coagularsi intorno a quel crogiuolo dei popoli una nuova musica nella quale il contributo delle comunità afro-americane sarà sempre più determinante.

La musica come riscatto sociale

Non perché i neri avessero la musica nel sangue, ma perché sputavano sangue sui libri e sugli strumenti musicali che erano stati loro preclusi per tre secoli. Le comunità afro-americane hanno investito sulla formazione studiando e suonando prima le marce, le danze, i canti di quegli stessi europei che li avevano schiavizzati e oppressi fino a quel momento, poi elaborando a partire da quei repertori un nuovo stile musicale che rendesse conto del proprio retaggio culturale, di cui si era conservata memoria attraverso le generazioni. Lo hanno fatto nonostante il pregiudizio e le diseguaglianze di una società che comunque rimaneva sostanzialmente in mano ai bianchi, nella quale si erano ritrovati come parìa, svantaggiati per condizione di nascita, sfruttati nella nuova condizione di lavoratori salariati. Lo stereotipo del nero che ha la musica e il ritmo del sangue non è meno razzista di quello che paragona il jazz alla musica ‘per copulare’ suonata nei bordelli di New Orleans, o il blues alla musica ‘del diavolo’. I neri non hanno la musica nel sangue più di quanto non l’abbiano i bianchi. E’ vero semmai che la comunità afro-americana in America ha sviluppato un rapporto particolare con la musica e in particolare il canto, ma non per motivi ‘biologici’, bensì per la stessa condizione di sfruttamento e subordinazione cui era stata sottoposta. Nella musica i gruppi sociali e dunque gli individui che ne erano parte, hanno trovato una via per il riscatto sociale e per la decompressione dalla crudeltà di coloro che li avevano obbligati a regredire alla condizione di animali da soma. Esemplare a questo proposito la storia del Ragtime. La sua nascita come ballo popolare, il suo debito verso la musica europea, l’eredità che ha lasciato sul jazz e le sue influenze sulla stessa musica classica e sinfonica, da Scott Joplin e Jelly Roll Morton a compositori come Dvorak, Debussy, Stravinsky, per culminare nella grande musica del Novecento, cui la civiltà afro-americana ha dato il suo innegabile contributo a ogni livello, dal popoular alle orchestre da ballo, dal rap alla musica sinfonica e operistica, dalle canzoni di protesta alla musica per il cinema.

Riferimenti bilbiografici.

Dario La Stella, La danza africana tra stereotipo e contemporaneità. Intervista a Cristiana Natali, in: ‘93%. Materiali per una politica non verbale’, 6 Giugno 2018.

Della Guglia Alessandro, ‘Il Primato Nazionale’, 27 Novembre 2018, Secondo Kurt Cobain i neri avevano il ritmo nel sangue.

Eberhardt, Jennifer, Confronting racism : the problem and the response, Thousand Oaks, Sage, c1998

Lippman, Walter L’opinione pubblica. La democrazia, gli interessi, l’informazione organizzata. Roma, Donzelli, 1995: 1922-1

Natali, Cristiana, Dal primitivismo all’autenticità. Le danze africane tra vecchi e nuovi stereotipi, in: “Danzare l’Africa oggi, eredità culturali, trasformazioni, nuovi immaginari”, Università di Bologna, s.d.

Nott, Josiah C., Gliddon George R., Indigenous Races of the Earth, Nabu Press, 2011: 1857-1

Condividi