La potenza disarmata delle masse non-violente

Illustration Artwork by Federico Berti. Created with Gimp/Qwen

Come si è più volte detto tra le pagine di questa rubrica sull’attivismo politico, il pacifismo internazionalista si distingue per la sua aspirazione a superare la logica nazionalista della contrapposizione tra classi dominanti, perseguendo piuttosto un allineamento fra le classi subalterne di quegli stessi Stati e una cooperazione che riesca ad attraversare le frontiere, tessendo reti attive e operanti sui territori. È naturale che questo tipo di attività finisca prima o poi per scontrarsi frontalmente con il potere repressivo degli stati-nazione. Quando ciò avviene è paradossalmente un buon segno, poiché vuol dire che si sta costringendo il potere stesso a mostrare il suo vero volto: non quello paternalista e benevolo delle mendaci promesse o delle volute misinterpretazioni propagandistiche, ma quello della repressione, quando la violenza cognitiva (sulle menti) si fa violenza fisica (sui corpi).

La risposta non violenta del pacifismo alle risposte violente del potere ottiene sempre un duplice risultato: in primo luogo toglie al potere stesso l’opportunità di giustificare le sue azioni come reazione ad altrettante aggressioni, come di solito avviene. L’originalità delle proteste avvenute negli Stati Uniti durante i No King’s Days del 2025 sta proprio nell’aver invocato programmaticamente l’uso della protesta non violenta e il rifiuto di assecondare qualsiasi provocazione da parte governativa, proprio per non dare al tiranno Trump l’occasione di occupare le città con la Guardia Nazionale e l’Esercito sventolando la banderuola della minaccia eversiva.

Nel momento in cui la provocazione non viene accettata, il provocatore non ha alcuna possibilità di far passare la vittima dalla parte del torto accusandola della sua reazione, seppur difensiva e giustificata. A questo primo risultato segue un secondo, più importante ancora: la rabbia per le azioni repressive del potere, unita alla forza d’animo e alla coerenza interna dimostrata dal movimento, favorisce l’aggregazione delle masse intorno a quel progetto e comporta un ulteriore incremento nel dissenso critico. Quando le piazze arrivano a coinvolgere centinaia di migliaia, milioni di cittadini, toccando punte del 3–4% rispetto all’intera popolazione, le scienze sociali hanno dimostrato che iniziano a verificarsi cambiamenti reali, concreti, ineluttabili.

Questo perché nessun potere autocratico è isolato dal mondo, nessun tiranno onnipotente, ma avviene l’esatto opposto: ogni autarca si trova a competere internamente con le vittime della propria violenza ed esternamente con la competizione nazionalista, ovvero l’autorità di un tiranno finisce sempre dove inizia l’autorità di un altro tiranno. Questo vale anche per le alleanze tra coalizioni, sempre limitate e contraposte ad altre coalizioni: nessun fascismo può reggersi senza un nemico esterno su cui scaricare la propria insita aggressività. La presenza di un forte e organizzato dissenso interno, indebolisce il tiranno davanti ai suoi competitors esterni e lo obbliga a cercare una mediazione. Questo 2025 verrà ricordato come l’anno delle grandi proteste internazionali, dove un movimento maturo e disciplinato è riuscito a obbligare governi criminali a cercare il compromesso, com’è avvenuto con l’epica impresa della Sumud Flottilla.

Così, negli Stati Uniti, le istituzioni preposte alla difesa della legalità si sentono più solide nel perseguire l’arroganza del potere autocratico, e l’amministrazione Trump continua a perdere pezzi. L’elezione di Mamdani a New York nasce proprio dall’effetto domino della protesta non violenta. Qualcosa di simile era accaduto al tempo di Rosa Parks, e quell’esempio, a distanza di anni, non è caduto nel vuoto. L’assolutismo fondamentalista iraniano sta affrontando lo stesso tipo di problematica interna e così avviene ache in Russia, in Ucraina, in Cina, in tutte le nazioni del mondo. Il pacifismo internazionalista si fonda esattamente su questo: una neutralità attiva che promuove da un lato la pace come valore universale, dall’altro la cooperazione tra le classi subalterne in modo trasversale agli stati-nazione, creando una rete in grado di influenzare dal basso, attraverso il numero e l’organizzazione, l’operato delle classi egemoni.

Vi è un “però”, naturalmente. Quando la violenza cognitiva della propaganda si fa violenza fisica delle forze di polizia, persecuzione occulta attraverso i servizi segreti, tortura e omicidio, la resistenza attiva e non violenta si trova ad affrontare l’estremo sacrificio dell’individuo alla collettività, e questo porta spesso i movimenti a dividersi. Tuttavia, mantenendo un solido collegamento con una rete informativa trasversale e amministrata sempre dal basso, anche questo tipo di violenza ha le ore contate, sempre per le motivazioni sopra espresse. Il potere di un dittatore finisce sempre dove inizia il potere di un altro dittatore: il fascismo è sempre incastrato fra il martello del popolo e l’incudine delle altre potenze fasciste, le autocrazie si alleano solo per un periodo limitato, e limitatamente a interessi specifici, poiché ogni nazione è per sua natura in competizione con tutte le altre. In definitiva, la linea pacifista è la sola che possa esercitarsi indipendentemente dalle risorse economiche o materiali, poiché non ha bisogno d’altro che della potenza generata dall’idea e della disciplina nell’azione delle masse. Dove la resistenza non violenta e pacifista è stata portata alle sue estreme conseguenze, ha sempre ottenuto gli obiettivi che si era posta.


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