Ritardi salariali in Russia. Collasso o resilienza?

Nelle ultime settimane i media occidentali hanno dato ampio risalto ai ritardi nei pagamenti registrati in alcune aziende russe, presentandoli come il segnale di un’economia sull’orlo del collasso. In realtà, i dati raccontano una storia diversa: i ritardi ci sono certo, ma non hanno la portata catastrofica che vorrebbe attribuirgli la propaganda interventista europea. Sebbene le stime varino a causa di un clima informativo non sereno, anche prendendo per buone le proiezioni più pessimistiche (3 miliardi di rubli, circa 34 milioni di euro), la cifra rimane marginale se rapportata a un’economia da oltre 2.000 miliardi di dollari
Naturalmente, il quadro macroeconomico non è privo di criticità: un deficit di bilancio in crescita e le difficoltà in alcuni settori civili, manifestano con chiarezza il peso dello sforzo bellico sull’economia. Tuttavia, questi dati vanno letti nel loro contesto. Il debito pubblico del Cremlino resta fra i più bassi al mondo: circa il 15–20% del PIL, contro il 90% dell’Europa e il 120% degli Stati Uniti. Non solo ma gran parte del debito russo è interno, detenuto cioè da cittadini e istituzioni russe, il che limita la dipendenza dai mercati finanziari internazionali o dalla politica estera. Anche sul fronte occupazionale la Russia mostra dati solidi, la disoccupazione ufficiale è attorno al 2%, un livello che gli economisti definiscono di “piena occupazione”. Per confronto, gli Stati Uniti oscillano attorno al 4% e l’Unione Europea supera il 6%.
Il vero nodo però è la politica monetaria: la Banca di Russia ha alzato i tassi fino al 21% nell’autunno 2024 per contenere l’inflazione e difendere il rublo, un livello ridotto poi al 17% nell’estate 2025. Questa stretta creditizia pesa sulle imprese, che spesso si trovano a scegliere se pagare subito i salari o onorare i prestiti: in molti casi la priorità è mantenere la produzione e i posti di lavoro, anche a costo di rinviare gli stipendi.
Ecco la differenza con l’Occidente. In Europa o negli Stati Uniti, un’azienda in difficoltà semplicemente chiude e licenzia: i lavoratori non solo non ricevono lo stipendio regolarmente, ma perdono proprio la loro redditività. In Russia, invece, l’approccio punta a preservare la stabilità sociale: il posto di lavoro resta e, seppur in ritardo, i salari arrivano, mentre lo Stato interviene con provvedimenti per tamponare le situazioni più problematiche, come dimostrano le moratorie sui fallimenti già applicate in alcuni settori (vedi il carbone) e in valutazione per altri (settore metallurgico).
Per questo i ritardi salariali, pur seri per chi li subisce, non sono il segnale di un collasso imminente della Russia, come vorrebbe farli passare la propaganda interventista del Rearm Europe, ma sono piuttosto il contrappeso di un modello economico fondato sulla resilienza e non sul pieno sviluppo, che preferisce, per sostenere i sacrifici deovuti all’economia di guerra, tutelare la coesione sociale, piuttosto che piegarsi alle logiche della pura efficienza di mercato. L’Europa dovrebbe guardare alle proprie fragilitò strutturali, invece di cantar vittoria ad ogni scricchiolìo che le par di sentire nell’aria. Perché la crisi del debito pubblico euroatlantico, il crollo dello stato sociale, della sanità pubblica, dell’istruzione, la chiusura delle aziende, sono problemi altrettanto, se non più gravi di quei 30 milioni di ritardi salariali russi.
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