La legittimità dei Referendum nel Donbass

La questione dei referendum nelle regioni orientali dell’Ucraina viene diffusamente affrontata da un punto di vista puramente giuridico, tralasciando di valutarne la complessità e lo spessore politico. Se usciamo dalla logica polarizzante della propaganda russa o euro-atlantica, il quadro che ne emerge non è privo di contraddizioni da entrambe le parti in causa. Partiamo allora dalle narrazioni dell’una e dell’altra, per metterle a confronto e ricavarne una posizione indipendente dai reciproci j’accuse.
Da un lato, l’Ucraina sostiene l’illegittimità dei referendum del 2014 e del 2022 nelle regioni di Donetsk e Luhansk per due motivi sostanziali: primo, la mancanza di un’autorizzazione parlamentare centrale, come previsto dalla costituzione ucraina; secondo, lo svolgimento delle consultazioni sotto pressione militare da parte delle truppe di occupazione straniera. Per Kiev, l’unico referendum legittimo rimane insomma quello del 1° dicembre 1991 sull’indipendenza dall’URSS.
Russia e autorità separatiste filorusse presentano a loro volta questi referendum come un’espressione autenticamente democratica della volontà popolare locale, citando le percentuali superiori al 90% di voti favorevoli all’annessione registrate nel 2022. Mosca non riconosce inoltre il governo salito al potere in Ucraina dopo ciò che definisce il “golpe di Maidan” del 2014, evento più volte citato dalle autorità russe come una delle cause profonde che hanno portato al conflitto in corso.
La comunità internazionale ha del resto respinto a sua volta la validità di queste consultazioni, denunciando l’assenza delle condizioni minime per un voto libero e l’irregolarità del processo elettorale in contesti di guerra e occupazione militare. Questa terza posizione evidenzia peraltro una sproporzione tra la delegittimazione dei referendum, pretesto per un casus belli premeditato, e l’intervento militare russo sul territorio ucraino.
Un’analisi più approfondita di queste tre posizioni rivela una serie di contraddizioni difficili da comporre. In primo luogo, la mancanza di autorizzazione da Kiev nel 2014 e nel 2022 non si può attribuire interamente all’occupazione russa (che nel 2014 non era ancora su larga scala), ma è piuttosto un chiaro segnale dell’indisponibilità da parte del governo centrale a riconoscere il movimento separatista nel Donbas, indipendentemente dalla volontà di chi ci vive: è dunque la scelta stessa del governo ad aver creato un circolo vizioso che rendeva impossibile – e quindi a priori illegittima – qualsiasi consultazione democratica sulle aspirazioni autonomiste. In pratica, il referendum non è valido perché io non ti ho mai autorizzato a votare.
La seconda violazione riguarda lo svolgimento in condizioni di occupazione militare. Anche questa argomentazione è tutt’altro che unilaterale: il referendum del 2014 si è tenuto dopo gli eventi del Maidan, in un contesto di violenze che hanno coinvolto tutte le parti in causa, mentre quello del 2022 durante una guerra civile che perdurava da anni in territori già devastati dal conflitto tra forze governative e gruppi separatisti. In pratica, secondo questa logica, il referendum non è valido perché io sto reprimendo nel sangue le rivolte conseguenti alla stessa richiesta che avevo già invalidato anni prima, in quanto non avevi la mia autorizzazione a votare. La contraddizione logica di entrambe le argomentazioni, è evidente.
Un elemento di riflessione a posteriori emerge poi dall’osservazione empirica della situazione attuale: se dopo otto anni di guerra civile e due con la Russia, non si è sviluppato nei territori occupati un vero e proprio movimento di resistenza popolare organizzata (guerra partigiana) – dinamica costante in tutti i contesti di occupazione militare non consensuale – sorge il dubbio che vi sia una certa acquiescenza, se non un consenso, intorno all’occupazione stessa. Ciò suggerirebbe che la volontà espressa in quei referendum, per quanto formalmente illegittima, trovasse un riscontro nella realtà dei fatti.
Nei territori orientali ucraini non si registrano in effetti movimenti di guerriglia popolare, paragonabili a quelli che si opposero all’occupazione nazista nella Seconda Guerra Mondiale. Le stesse organizzazioni cosiddette ‘partigiane’ ucraine, in realtà truppe speciali arruolate a distanza da Kiev nei territori occupati, hanno segnalato una sostanziale disponibilità alla collaborazione con le truppe di occupazione, da parte della popolazione locale: i pochi episodi di resistenza coinvolgono principalmente cellule organizzate dalle forze armate ucraine, piuttosto che movimenti spontanei di resistenza popolare.
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Date queste considerazioni, i referendum del 2014 e del 2022, al di là della loro validità legale, si possono interpretare come un tentativo da parte separatista filorussa (e russa) di risolvere diplomaticamente la crisi. Prima che un valore giuridico, dovevano avere un significato politico: il rifiuto categorico di autorizzare qualsiasi consultazione democratica da parte di Kiev, dopo aver dichiarato illegittime quelle votazioni, non era certo dovuto all’occupazione russa, ma rispondeva a una precisa volontà del governo ucraino di non riconoscere il movimento separatista, a prescindere dalla volontà reale della cittadinanza, volontà che non ha mai voluto verificare.
La prospettiva di ripetere le consultazioni in condizioni di sicurezza, sotto controllo internazionale e nel rispetto delle forme giuridiche, avrebbe potuto offrire un’alternativa al ricorso sistematico alle forze armate. Ecco dunque che le argomentazioni invalidanti i due referendum vacillano, mostrando piuttosto una volontà politica di non risolvere la situazione per via diplomatica, lasciando l’ultima parola alle armi, in un momento in cui l’Ucraina si sentiva forte del supporto americano e pensava di poter contare ad libitum sul pieno appoggio politico della Nato e dell’Europa. Le sue scelte, di fatto, provocarono apertamente una reazione russa, tutt’altro che imprevedibile.
D’altra parte, sempre volendo uscire dalla logica della polarizzazione, l’invasione del territorio sovrano ucraino è stata palesemente sproporzionata e illegale secondo il diritto internazionale: la minaccia del neonazismo in Ucraina avrebbe dovuto essere un problema interno alla nazione; la sicurezza delle regioni di Donetsk e Luhansk non giustificava un’invasione dell’intero paese, proprio come lo stesso concetto di “esportazione delle democrazia è stato contestato in altra sede al Pentagono. È evidente che l’aggressione militare russa non si possa attribuire unicamente all’invalidazione dei referendum, ma che fosse stata premeditata e pianificata con cura da anni.
Quanto detto finora conferma la natura propriamente imperialista di entrambe le posizioni in questo scellerato conflitto: la Russia rivendica il diritto di annettersi regioni di uno stato sovrano, mentre Kiev ha a lungo rifiutato di riconoscere le profonde divisioni interne al proprio paese e si è ostinata a non voler concedere alle regioni del sud lo statuto speciale che reclamavano, nel nome di un nazionalismo estremista e repressivo. Questo dato, se confrontato con l’alto numero di diserzioni da ambo le parti, ribadisce il punto fondamentale rivendicato dai pacifisti: questa guerra non si combatte nell’interesse del popolo russo, né di quello ucraino.
Alla luce di tali considerazioni, l’invasione russa dell’Ucraina risponde a un complesso intreccio di dinamiche, che ha visto le regioni separatiste rivolgersi al Cremlino per ottenere con la forza quel che non avevano potuto conseguire attraverso la trattativa diplomatica. Dall’altra parte, il governo di Kiev ha ricevuto un supporto materiale massiccio attraverso l’invio di armi e finanziamenti, ma non un intervento militare diretto da parte della Nato e dell’Europa, per il semplice fatto che l’Occidente non ha voluto aprire un fronte diretto contro la Russia, limitandosi a quella che pacifisti e internazionalisti definiscono una “guerra per procura”.
Se dunque è illegittima (eccome se lo è!) l’invasione russa dell’Ucraina, discutibile è stata anche la volontà di reprimere militarmente le proteste separatiste nel Donbas da parte del governo di Kiev, così come lo è il supporto incondizionato euro-atlantico a una guerra che non si configura più come semplice resistenza di popolo, ma come un conflitto ibrido in cui Oriente e Occidente si scontrano per propri vantaggi geopolitici. Una guerra imperialista, insomma, che i soldati di ambo le fazioni dovrebbero avere il coraggio di non combattere. Altrettanto controproducente è la semplificazione di una propaganda occidentale che rimuove qualsiasi complessità dal conflitto, affiancando un governo ucraino che a sua volta deve fare i conti con le spinte ultranazionaliste dalle quali risulta palesemente ricattato (si vedano a questo proposito le ricorrenti minacce di morte a Zelensky).
In conclusione, quando si parla dei referendum separatisti del 2014 e del 2022, è necessario tener presente che in quel contesto diritto formale, legittimità sostanziale e realtà politica non coincidono. Una valutazione che sfugga alle polarizzazioni della propaganda, pur prendendo atto dell’illegittimità procedurale delle consultazioni, dovrebbe dare il giusto peso alla dimensione politica delle aspirazioni separatiste, dunque alla responsabilità di tutti gli attori coinvolti nel fallimento delle soluzioni diplomatiche. Quando si chiude il canale della trattativa, le armi sostituiscono la diplomazia, con conseguenze più devastanti per tutti. Pace ora.
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