Dissenso, profilazione e repressione. L’autocrazia degli algoritmi

Dissenso, profilazione e repressione.
L’autocrazia degli algoritmi
Articolo di Federico Berti
Che negli ultimi cinque lustri le piattaforme digitali siano divenute l’infrastruttura immateriale attraverso cui transitano informazione, commercio, socialità e politica, in un flusso continuo e ininterrotto, è ormai un dato acquisito. Non serve nemmeno più dimostrarlo: ne abbiamo percezione immediata, come del caldo o del freddo. Meno percepito è invece il fatto che, in questo ecosistema, la distinzione tra consumatore e cittadino stia rapidamente evaporando. Le stesse tecnologie, gli stessi sistemi e le stesse strategie di comunicazione utilizzate per vendere un prodotto vengono oggi impiegate, in modo speculare, per orientare scelte politiche, decidere quali contenuti debbano essere visibili o oscurare intere comunità online. Politica e commercio non sono più sfere separate, ma parti di un unico ambiente governato da logiche estrattive.
Il risultato è una vulnerabilità digitale dilagante, alimentata da algoritmi e reti neurali progettati per massimizzare l’attenzione e incrementare l’acquisizione (o il turpe mercato) dei dati sensibili, più che per proteggere una democrazia sempre più procedurale e sempre meno sostanziale. Questa trasformazione ridefinisce il rapporto tra chi detiene il potere nel dibattito pubblico e chi invece lo subisce, sollevando un interrogativo essenziale: quanto spazio resta, in concreto, per l’autonomia e la libertà di pensiero del cittadino, in un ambiente governato da attori privati che rispondono unicamente alle logiche del profitto? Il problema nasce dal fatto che gli utenti della rete svolgono ormai simultaneamente il ruolo di cliente, pubblico, elettore, lavoratore e target pubblicitario. Gli algoritmi non distinguono tra queste funzioni: trattano ogni interazione come un dato utile per predire e indirizzare comportamenti futuri. I sistemi di raccomandazione operano come veri e propri meccanismi persuasivi adattivi: raccolgono informazioni, identificano vulnerabilità e modulano i contenuti per orientare le decisioni. Finché si tratta di consigliare un prodotto, il rischio sembra relativo. Ma quando il “prodotto” è la politica, l’oggetto di queste strategie diventa la volontà democratica stessa. Come avvertiva McLuhan, il mezzo è il messaggio e a quanto pare oggi il mezzo è tutt’altro che neutrale.
La tecnica su cui l’egemonia digitale fonda il suo potere è la micro-profilazione politica, che utilizza dati comportamentali per individuare bias cognitivi e fragilità emotive, con l’obiettivo di proporre messaggi personalizzati capaci di modificare atteggiamenti e convinzioni. In questo modo, ogni cittadino vede una porzione diversa della realtà, calibrata per produrre una reazione. Le persone discutono su fatti differenti, chiuse in bolle informative autoreferenziali, mentre lo spazio democratico condiviso si restringe. E tutto avviene alla luce del sole: basti pensare alla modifica dell’algoritmo della piattaforma X per amplificare contenuti politici favorevoli a specifiche figure, o alla tendenza di Meta a privilegiare contenuti divisivi, facilitando la diffusione di narrazioni omofobe, pseudoscientifiche e complottiste. Parallelamente, le piattaforme esercitano un ruolo sempre più evidente di censori privati. Nei paesi che si auto-definiscono paladini della libertà di espressione, la censura è semplicemente delegata al privato. Le piattaforme possono rimuovere contenuti, sospendere account, oscurare la visibilità di un post o cancellare intere comunità virtuali. Non di rado la rimozione è invisibile, silenziosa, strisciante quasi, avviene tramite una svalutazione dei contenuti (shadow banning) lasciando l’utente inconsapevole a predicare nel deserto di una camera ecoica vuota. Contestare queste decisioni è quasi impossibile: gli strumenti di ricorso sono inadeguati e lo squilibrio di potere è soverchiante. Nei regimi autoritari, questi meccanismi diventano strumenti di repressione poiché favoriscono l’identificazione degli attivisti, la mappatura delle reti sociali e dunque la neutralizzazione delle opposizioni. Non sorprende quindi che l’uso di VPN, Tor e altri sistemi di anonimato registri picchi significativi nei momenti di crisi politica o censura.
L’Unione Europea ha iniziato, tardivamente purtroppo, a confrontarsi con questi rischi, tentando di regolamentare lo sfruttamento delle vulnerabilità digitali. Ma riconoscere il rischio di manipolazione non basta, occorre definirla nel concreto: cosa è manipolatorio? Dove passa la linea tra persuasione legittima e sfruttamento psicologic, tra informazione e propaganda? Le normative come il DSA e l’AI Act evitano definizioni precise, lasciando margini interpretativi amplissimi. Inoltre, la vulnerabilità non riguarda solo minori o anziani, come tlvolta sembra che questi sistemi vogliano indurre a pensare: in un ambiente digitale costruito per inferire fragilità, potenzialmente chiunque è vulnerabile. Il paradosso è evidente, la responsabilità del controllo viene scaricata sulle stesse piattaforme che traggono profitto da quelle pratiche, e che spesso contribuiscono a definire gli stessi regolamenti. L’esecuzione delle normative poi si affida in gran parte all’autocertificazione, rafforzando il potere delle piattaforme anziché limitarlo.
Di fronte a questo accentramento di potere, qualcuno inizia a elaborare potenziali alternative: social network decentralizzati come Mastodon e il Fediverso, basati su un modello federato libero da algoritmi invasivi; i protocolli aperti come l’AT Protocol di Bluesky, che separano contenuto e piattaforma; le reti di anonimato come Tor e l’uso diffuso di VPN per sfuggire alla censura. Queste soluzioni non risolvono il problema di fondo, ma rappresentano tentativi di reazione, aperture verso un futuro diverso. Intanto la repressione colpisce le avanguardie critiche, ma non può abbattersi indiscriminatamente sulla massa degli utenti, poiché essi restano in primo luogo consumatori dei quali le piattaforme non possono fare a meno. Una massa critica ancora diffusamente inconspevole del suo potere, che si fonda sul numero e sull’organizzazione. Il costo di un clic indotto dalla pubblicità a pagamento, sarà sempre superiore all’azione spontanea di milioni di persone, come l’elezione di Mamdani a New York ha dimostrato.
Le piattaforme digitali hanno ridefinito il modo in cui i cittadini esercitano i diritti fondamentali. La micro-profilazione politica, la censura algoritmica e la vulnerabilità digitale non sono incidenti di percorso: sono conseguenze strutturali di un modello economico che equipara politica e commercio. Le risposte istituzionali risultano insufficienti perché il sistema stesso della manipolazione è elastico, adattabile e capace di assorbire o aggirare ogni tentativo di regolazione. Le alternative decentralizzate non sono ancora pronte a sostenere un traffico di massa e non dispongono della robustezza necessaria. Cosa resta, allora, come prospettiva per un’autentica politica del dissenso? Sempre più evidente è che la soluzione non può essere delegata al potere. Deve partire dagli utenti stessi: una nuova alfabetizzazione digitale, una responsabilizzazione collettiva che trasformi la massa degli utenti da oggetto a soggetto del processo comunicativo. Una sorta di “pedagogia degli oppressi” in senso contemporaneo: ciascuno chiamato a lavorare sulla propria consapevolezza critica e a diffonderla attraverso reti reali e digitali. Solo innalzando la resilienza media si può creare una barriera contro la manipolazione sistemica e l’infodemia dilagante. Una rivoluzione interiore. Nel nuovo feudalesimo tecnologico, l’emancipazione non passa attraverso un singolo atto legislativo o un nuovo regolatore, ma attraverso la costruzione di una cittadinanza digitale consapevole, capace di sottrarsi alla tirannide invisibile dell’algoritmo. La soluzione, in definitiva, non è fuori di noi: è dentro di noi.
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