Cosa vuole davvero il popolo ucraino?

Cosa vuole davvero il popolo ucraino?

Articolo di Federico Berti

Continuo a leggere articoli di chiaro impianto militarista, alcuni sinceramente convinti, altri più sospettosamente allineati, che sembrano ignorare la gravità della situazione sul campo. A volte sembra di vedere un comando che sposta sulla carta armate ormai inesistenti, mentre il terreno continua a sfuggire dal controllo dell’esercito nazionale. In un contesto così delicato, la disinformazione non è soltanto grave: è pericolosa. Per questo sento il dovere di spostare l’attenzione dalle dichiarazioni belliciste dei patrioti oltranzisti alle domande reali, iniziando da una sola, fondamentale: cosa vuole davvero il popolo ucraino?

Non basta chiederlo alla badante del nonno o al rifugiato dell’appartamento accanto. Guardiamo piuttosto i dati, sondaggi indipendenti e trasparenti. Secondo rilevazioni di istituti come il Rating Group o il KIIS (Kyiv International Institute of Sociology), la fiducia in Zelens’kyj è crollata a poco più di un terzo della popolazione rimasta, in un’ipotetica tornata elettorale molto probabilmente non avrebbe la maggioranza. A questo proposti ritengo doveroso ricordare che il suo mandato presidenziale sarebbe scaduto nella primavera 2024, ma lo stato di emergenza e la legge marziale lo hanno prorogato de facto, sospendendo ogni possibilità di rinnovo democratico. Non si tratta di un giudizio morale, ma di un dato più che concreto: in assenza di elezioni, il consenso popolare si misura in altri modi — e quei modi stanno parlando con molta chiarezza.

Nel 2014 Yanukovych fu destituito per corruzione e per aver tradito le aspettative di un paese che voleva riforme, trasparenza, dignità. Oggi, purtroppo, molti ucraini vedono nel proprio governo un sistema ancora una volta malversato da pratiche clientelari, inefficienze e scandali per corruttela. Il prezzo della guerra pagato dal popolo è apocalittico, centinaia di migliaia di vite, intere generazioni decimate, città rase al suolo, un’economia devastata, un futuro che dire incerto è poco. In questo vuoto democratico s’inizia a parlare di una possibile transizione guidata da un militare: Valerii Zaluzhnyi, già capo di Stato Maggiore, figura rispettata ma non eletta. Un generale alla guida di un Paese in guerra non è inedito, mi ricorda le più crudeli dittature del Novecento — ma in un contesto di emergenza prolungata, solleva interrogativi ineludibili: siamo davvero sicuri che la soluzione stia oltre la politica, e non dentro una sua rinnovata legittimità popolare?

Per i sostenitori della guerra totale ovvero del battersi all’ultimo sangue costi quel che costi, ogni voce interna che invoca una tregua è tacciata di disfattismo o tradimento. Li chiamano ‘codardi’, ma il popolo ha molti modi per esprimere il proprio pensiero — anche quando non può votare. Sette milioni di ucraini sono sfollati all’estero, una diaspora senza precedenti nella storia recente d’Europa. Cittadini a pieno titolo con diritti, ricordi, sofferenze sulle spalle. Molti hanno ancora la famiglia in Ucraina e sostengono economicamente il Paese dall’estero. Se vivessimo in una democrazia piena, il loro voto conterebbe — e conterebbe anche la loro opinione, raramente indagata da chi impone le narrazioni belliciste dei guerrafondai.

Le diserzioni, secondo le stime oscillano tra 100 e 200.000 unità. Eventi come la diserzione di massa nella 155ª Brigata a Pokrovsk danno l’idea di un logoramento profondo, morale e fisico. Non nascondiamoli sotto il tappeto questi numeri, sono un campanello d’allarme. Cosa dire dei cittadini delle regioni meridionali ed orientali, quelli che — pur essendo ucraini — continuano a non organizzarsi in un movimento di resistenza armata diffuso? Non sono forse anch’essi parte del “popolo ucraino”? Il paradosso è che mentre una minoranza continua a chiedere più armi, più tempo, più resistenza, una parte crescente della popolazione, dentro e fuori il Paese, chiede pace, sicurezza, sopravvivenza. Non sono due posizioni incompatibili in astratto, ma lo sono nella pratica, perché non c’è spazio pubblico per un dibattito onesto su come conciliarle.

L’esercito russo avanza lentamente è vero, ma avanza. Non è un blitzkrieg, ma una guerra di logoramento. Ogni settimana che passa riduce le possibilità di un negoziato su basi anche minime di equilibrio, gni giorno perso è un villaggio bombardato, decine, centinaia, migliaia di reclute morte, una famiglia dispersa. I giovani mandati al fronte hanno pochi di giorni di vita da aspettarsi. Smettiamo di contare le armate fantasma sulla carta, quelle già distrutte o quelle ancora in costruzione, e iniziamo a contare quello che conta davvero: morti, feriti, sfollati, disertori, villaggi spopolati, il paese distrutto.

Se facciamo questo conto con onestà, senza retorica, siamo obbligati ad ammettere una verità scomoda: la volontà di “resistere a oltranza” non è più maggioritaria tra gli ucraini nel mondo. Sarà una posizione legittima per qualcuno, ma non è l’unica e soprattutto, non è prevalente. Quando una decisione di vita o di morte per milioni di persone viene presa senza il loro consenso esplicito, smette di essere solo una strategia militare, diventa un atto di prevaricazione del potere. La pace non è fine della dignità, è semmai condizione perché la dignità possa ristabilirsi. Mettiamo dei fiori nei cannoni. Pace non domani, non fra un mese. Pace subito.



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