La politica del cagnolino che rincorre il bastone

La disinformazione organizzata, sistematica, intenzionale, meditata apposta per distrarre, rappresenta oggi una delle minacce più insidiose alla democrazia. Non possiamo più pensare che si tratti solo di sviste occasionali o imprecisioni involontarie, frutto dell’ignoranza o di un’ideazione disturbata, ma siamo proprio davanti a una strategia politica che alcuni schieramenti, in particolare quelli populisti delle destre radicali, hanno trasformato in strumento quotidiano di gestione del consenso, un piede di porco per scardinare l’opinione pubblica. Le fake news sono diventate un sistema con meccanismi prevedibili, misurabili, obiettivi precisi: deviare l’attenzione dai fatti reali, costruire nemici immaginari, alimentare paure irrazionali nella popolazione, coprire le profonde malefatte di chi continua a disfare lo stato di diritto giorno per giorno.
Il meccanismo è sempre lo stesso. Quando viene alla luce un fatto scomodo, una critica ragionevole o una notizia negativa, la risposta non è la giustificazione o il confronto nel merito, ma il lancio di una contro-narrazione falsa che sposta immediatamente il focus dell’opinione pubblica su tutt’altro. Vuoi distrarre dal genocidio in Palestina? Monta una campagna diffamatoria contro Francesca Albanese. Vuoi distrarre dai processi per corruzione, voto di scambio, malaffare delle giunte mafiose? Sbatti in prima pagina l’acqua di colonia che Fassino aveva in tasca nel supermercato. Vuoi distrarre dal malcontento diffuso per il progetto del Ponte Sullo Stretto di Messina? Manda qualche autobus al servizio del trasporto pubblico in Calabria e dichiaralo in un bel video su Tik Tok. La menzogna diventa più rumorosa del fatto da nascondere, la notizia inventata più sensazionale della verità da occultare. Nel caos informativo che ne deriva, il problema viene rapidamente dimenticato, sepolto sotto strati di polemiche artificiose.
Questa tattica funziona perché sfrutta una caratteristica ben documentata del nostro modo di ragionare: la mente umana tende a ricordare l’informazione iniziale molto più della sua successiva smentita. Anche quando una fake news viene smascherata, la traccia lasciata dallo scandalo precedente persiste, influenzando le percezioni e i giudizi futuri. Chi diffonde deliberatamente falsità lo sa bene e agisce di conseguenza, consapevole che il danno alla reputazione dell’avversario o la distrazione dall’agenda reale, rimarranno efficaci anche dopo il fact-checking. Questo meccanismo psicologico è aggravato dalla formidabile accelerazione tecnologica e dall’enorme disponibilità economica di questi partiti, sovvenzionati dagli strati più abbienti della società, che possono permettersi di spendere milioni nella promozione delle loro corbellerie, creando i presupposti per un’infodemia dilagante, un vero e proprio delirio collettivo. I social media hanno moltiplicato esponenzialmente la velocità e la portata della diffusione delle notizie false, mentre le tecnologie di intelligenza artificiale, dai deepfake alle manipolazioni audio-video, hanno reso la produzione di contenuti ingannevoli accessibile e convincente come mai prima. La battaglia contro la disinformazione si combatte oggi in un terreno di gioco strutturalmente favorevole a chi mente.
Di fronte a questa situazione, la tentazione di denunciare sistematicamente ogni affermazione falsa appare legittima e comprensibile, poiché non siamo di fronte a semplici opinioni, ma proprio a dichiarazioni palesemente mendaci, deformazioni della realtà che ledono l’onorabilità degli avversari. Quando un Presidente del Consiglio dichiara pubblicamente che l’opposizione è un’associazione terroristica addirittura peggio di Hamas, sta compiendo un atto di violenza pubblica, non sta esprimendo un’opinione, quindi l’atto è perseguibile per legge. Si chiama diffamazione a mezzo stampa, la classica macchina del fango, ed è il manganello del ventunesimo secolo. Un’azione legale pronta ed energica, senza compromessi, contro chi diffonde questo tipo di disinformazione strumentale e consapevole, potrebbe servire se non altro a ricordare che la menzogna può avere delle conseguenze, che la responsabilità politica non può essere elusa attraverso la manipolazione sistematica della verità. Quando lo stalker sa che ogni accusa infondata potrà costargli un procedimento giudiziario, una condanna, l’obbligo di ritrattazione pubblica o sanzioni economiche, il calcolo costi-benefici della menzogna potrebbe cambiare.
Tuttavia, la strategia della denuncia sistematica si scontra con un paradosso mediatico che ne mina in parte l’efficacia complessiva. Ogni volta che viene lanciata una sciocchezza particolarmente eclatante, si innesca un ciclo di attenzione mediatica che finisce per amplificare proprio ciò che si vorrebbe neutralizzare. Il classico “Non pensare a un elefante!”. Programmi televisivi rotocalchi, riviste, quotidiani, dedicano ore di trasmissione, pagine intere all’analisi della bufala di turno, articoli dettagliati di smentita, discussioni accese. In questo processo, la falsità viene ripetuta infinite volte, raggiungendo un pubblico ancor più vasto e accentuando il clima di polarizzazione, mentre il messaggio politico costruttivo dell’opposizione viene totalmente oscurato. Si crea così una vera e propria schizofrenia collettiva: l’opinione pubblica è continuamente sballottata, strattonata, violentata, resa incapace di mantenere l’attenzione sui temi sostanziali che dovrebbero caratterizzare il confronto politico: la sanità pubblica, le politiche occupazionali, la transizione ecologica, la qualità dell’istruzione, passano sistematicamente in secondo piano rispetto all’ultima provocazione o all’ultima invenzione di questi pericolosi criminali. La memoria di lavoro collettiva, quella capacità cognitiva della società di concentrarsi su problemi complessi per il tempo necessario a elaborare soluzioni, viene costantemente interrotta, frammentata, disturbata.
Questa dinamica non danneggia tutti allo stesso modo: chi utilizza la disinformazione e la diffamazione come arma politica, trae vantaggio proprio dal caos informativo che genera, mentre chi cerca di mantenere un livello di dibattito ancorato ai fatti e alle proposte concrete, viene continuamente costretto a rincorrere l’ultima falsità, invece di poter sviluppare una narrazione politica coerente. Così l’opposizione si riduce a una continua rincorsa tra i galletti nel pollaio, perdendo di vista i problemi reali del paese. La destra lancia il bastoncino, la sinistra corre a recuperarlo come un cagnolino. Il risultato finale è un impoverimento drammatico della qualità del dibattito politico, ridotto all’eterno ritorno del nulla. Chi governa può continuare a devastare il paese, senza che nessuno sia in grado di muovere un dito per impedirglielo. In questo modo, la democrazia viene ridotta al teatrino dei burattini della borghesia.
La soluzione a questo impasse richiederebbe un cambiamento radicale nell’approccio alla comunicazione. Di fronte a queste distrazioni di massa la risposta dovrebbe essere rapida, decisa ma estremamente contenuta nella sua esposizione pubblica. Una dichiarazione breve e formale che annunci l’avvenuta denuncia legale, senza entrare nel merito dettagliato della falsità, né alimentare ulteriori discussioni. L’obiettivo non è convincere nel breve termine chi ha già creduto alla menzogna, operazione inutile perché amplificandola porta comunque altri a credervi, ma al contrario evitare di alimentarne il fuoco soffiandovi sopra l’ossigeno mediatico che la tiene in vita. Certo questo approccio richiede però una disciplina collettiva e una consapevolezza del fatto che l’arena dei social non è più solo un terreno di evasione, ma sta diventando il nuovo Colosseo, dove i gladiatori dell’opinione pubblica si scontrano per il divertimento delle folle festanti. Stiamo vivendo un clima da squadrismo digitale. Dovremmo resistere alla tentazione di rispondere colpo su colpo smontando punto per punto ogni falsità, dedicando energie e tempo prezioso a confutare ciò che non merita confutazione, potrebbe essere quasi meglio rassegnarsi al fatto che nel breve periodo alcuni possano credere alle favole degli orchi, puntando piuttosto sul medio-lungo periodo, quando le azioni legali produrranno conseguenze concrete e la ripetuta assenza di risposta toglierà attrattiva alla strategia della provocazione continua. Nel frattempo, mantenere la rotta della propria linea politica, senza deviare dalla direzione presa. Smettiamola di correre dietro al bastoncino.
Dopo una dichiarazione formale di denuncia, l’attenzione deve immediatamente tornare ai contenuti propositivi, alle proposte concrete, alla visione politica che si intende offrire al Paese. Questa non è una fuga dalle responsabilità ma, al contrario, un modo per sottrarsi al gioco dell’avversario e riportare il confronto sul terreno della sostanza. Significa rifiutarsi di lasciare che l’agenda politica venga dettata da chi ha più spregiudicatezza nel mentire. Naturalmente, questa strategia comunicativa deve essere accompagnata da un’azione giudiziaria effettiva e incisiva. Serve che i procedimenti vengano trattati con priorità, che le sentenze arrivino in tempi ragionevoli, che le sanzioni siano sufficientemente pesanti da costituire un deterrente reale: lo stalker seriale deve essere obbligato a ritrattare pubblicamente con la stessa visibilità data al falso originario, deve subire conseguenze economiche significative, deve rispondere penalmente quando le sue campagne scellerate arrecano danno a persone o istituzioni.
Questo richiede anche interventi legislativi che aggiornino le norme sulla diffamazione e sulla responsabilità editoriale al contesto dei social media, colmando i vuoti normativi che oggi permettono la diffusione impunita di contenuti palesemente falsi. Non si tratta di limitare la libertà di stampa, ma di applicare le leggi già esistenti sulle dichiarazioni mendaci velocizzando i procedimenti giudiziari per diffamazione e rendendoli accessibili anche attraverso forme di assistenza legale agevolata. Se ne ricordi la sinistra, quando tornerà al governo, poiché si deve spuntare l’ascia in mano a questi facinorosi disarmando le loro vermilingue. Non mi dilungo sulla necessità di un’alfabetizzazione digitale delle masse, un’educazione e un potenziamento delle facoltà cognitive, poiché ne ho già parlato in varie sedi, cui rimando. La combinazione di questi tre elementi: azione legale determinata, comunicazione strategica che limiti l’esposizione mediatica delle falsità e investimento massiccio nell’educazione critica, rappresenta l’unica risposta efficace a un fenomeno che sta minando le fondamenta stesse del dibattito democratico. Continuare a giocare secondo le regole imposte da chi utilizza sistematicamente la menzogna significa abdicare al silenzio della ragione che genera mostri.
Un ultimo punto mi ripropongo di affrontare in un ragionamento più approfondito ed è la risposta collettiva allo squadrismo digitale. L’azione del disinformatore prezzolato, ha un costo che solo una minima parte della popolazione può permettersi. Le masse non dispongono di mezzi per poter pagare delle campagne sui motori di ricerca, per cui devono avvalersi di quella che storicamente è la loro forza, ovvero il numero e l’organizzazione. Rispondere a una campagna disinformativa in modo netto, collettivo, organizzato, neutralizzerebbe la potenza di fuoco mediatico del disinformatore, o renderebbe il costo di quella campagna insostenibile sulle lunghe distanze. Per cui la costruzione di collettivi in grado di opporre a questa marea inebriante un argine in grado di contenerla, dovrebbe essere il primo passo per un riscatto delle masse da questa violenza inaudita, che sta rischiando di portare l’umanità nel baratro della guerra nucleare e dell’autodistruzione. Non c’è più tempo, bisogna agire subito.
La posta in gioco è altissima, non si tratta semplicemente di vincere o perdere singole battaglie elettorali, ma di preservare la possibilità stessa di un confronto politico basato su fatti verificabili e proposte valutabili razionalmente. Una democrazia in cui la verità diventa irrilevante e vince chi mente in modo più persuasivo, o chi può permettersi di pagare di più un motore di ricerca, non è più una democrazia nel senso proprio del termine, ma una forma degradata di manipolazione del consenso in cui il cittadino viene trasformato da soggetto attivo, in oggetto passivo di propaganda. Per questo la lotta alla disinformazione sistematica non può essere considerata una questione tecnica o marginale, ma deve diventare una priorità politica trasversale. Richiede coraggio nel resistere alla tentazione di rispondere sul medesimo piano dell’avversario sleale, disciplina nel mantenere l’attenzione sui contenuti sostanziali, determinazione nel perseguire legalmente chi diffonde falsità, e visione a lungo termine nel costruire gli strumenti educativi che renderanno le future generazioni più resistenti alla manipolazione. Abbiamo gli strumenti per reagire, dobbiamo solo usarli con intelligenza e determinazione.
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