Etgar Keret e il Pesce d’Oro. Identità e assimilazione in Israele
La traduzione inglese del racconto di Etgar Keret, “What, of this Goldfish, Would You Wish?”, sembra porre un problema di complessità linguistica che merita un’analisi approfondita, intorno alla quale si gioca la profondità delle implicazioni contenute nel racconto stesso. L’idea venne a Keret dopo aver letto insieme al figlio di cinque anni Il Pescatore e il Pesce d’Oro di Alexander Pushkin.
Il termine Goldfish in inglese da un lato evoca la creatura leggendaria della tradizione fiabesca (golden fish) dall’altro indica il nome del comune pesce rosso domestico; anche nella fiaba pushkiniana, la creatura magica veniva del resto detta “золотая рыбка” (zolotaya rybka), letteralmente pesce d’oro, nell’originale era dunque già presente la stessa ambiguità semantica riscontrata nell’inglese, e in ultima analisi anche nell’ebraico moderno si registra la stessa sovrapposizione: “золотая рыбка” (dag zahav) indica sia il pesce domestico comune degli acquari, sia la creatura fiabesca dotata di poteri magici.
La coincidenza terminologica non è casuale, ma riflette un processo di prestito linguistico che ha interessato tanto l’ebraico moderno quanto altre lingue europee nell’adozione della denominazione del pesce rosso domestico. Il nome latino del pesce rosso è per l’appunto Carassius auratus, che in italiano viene talvolta tradotto come pesce d’oro. L’ebraico mantiene quindi l’ambiguità semantica originaria, dove il dag zahav può simultaneamente riferirsi al banale pesce domestico e alla creatura magica della fiaba.
Il pesce rosso, che vive solitario nella sua boccia di vetro, diventa così un simbolo dell’ebreo diasporico contemporaneo, sospeso fra la tradizione culturale da cui proviene e la realtà quotidiana in cui vive. La fiaba del pesce d’oro di Pushkin, pubblicata nel 1833 e successivamente raccolta da Aleksandr Afanas’ev nella sua monumentale collezione di fiabe russe, è il punto di riferimento dichiarato dall’autore stesso; nella versione pushkiniana il pesce d’oro viene catturato da un pescatore che, dietro insistenza della moglie, formula richieste sempre più ambiziose, fino alla punizione finale che riporta la coppia alla povertà originaria.
Keret ribalta completamente la struttura tradizionale della fiaba, calandola nel presente: il protagonista Sergei Goralick non è un pescatore, ma un immigrato russo che alleva un pesce d’oro in una boccia di vetro, nel proprio appartamento situato in un piccolo sobborgo di Yaffo. La dimensione culturale dell’immigrazione russa in Israele aggiunge un ulteriore livello di complessità alla rielaborazione: Sergei porta con sé non solo la memoria culturale della fiaba pushkiniana, ma anche la condizione di sradicamento tipica dell’esperienza migratoria.
Il pesce d’oro diventa così simbolo di un’identità culturale che deve essere preservata e nascosta, piuttosto che condivisa. La questione dell’assimilazione culturale emerge con particolare evidenza nell’analisi del comportamento di Sergei, acquisendo una dimensione ancor più complessa quando si consideri l’assenza di una tradizione ebraica del pesce d’oro comparabile a quella russa: il pesce nella tradizione rappresenta piuttosto la fertilità, la protezione divina e la continuità del popolo d’Israele, come testimoniato dalla benedizione di Giacobbe a Efraim e Manasse.
La presenza del pesce d’oro nel racconto di Keret costituisce quindi un elemento di derivazione culturale slava, più che ebraica, introdotto nell’universo israeliano contemporaneo attraverso l’immigrazione russa: questo fenomeno pone questioni complesse relative alla negoziazione identitaria nell’Israele moderno, dove la diversità culturale degli immigrati deve confrontarsi con la costruzione di un’identità nazionale unificata.
L’elemento del pesce d’oro rappresenta simbolicamente la condizione dell’ebreo diasporico che porta con sé tradizioni culturali acquisite durante secoli di vita in contesti non ebraici. La gelosia protettiva con cui Sergei custodisce il proprio segreto riflette la tensione tra l’integrazione nella società israeliana e la preservazione di elementi culturali che, pur non appartenendo al nucleo tradizionale ebraico, sono diventati parte integrante dell’identità personale attraverso l’esperienza diasporica.
Questa dinamica assume particolare rilevanza nel contesto dell’immigrazione russa degli anni Novanta, quando masse consistenti di ebrei provenienti dall’Unione Sovietica hanno portato in Israele elementi culturali russi che si sono sovrapposti e talvolta confusi con l’identità ebraica tradizionale. Il racconto di Keret cattura magistralmente questa ambiguità identitaria, presentando un protagonista che non può separare la parte ebraica del proprio sé dalla cultura russa acquisita.
La scelta del nome Yonatan per il giovane regista porta con sé una doppia valenza nell’economia simbolica del racconto: il nome infatti richiama la figura biblica di Giona (Yonah in ebraico), profeta che tentò di sfuggire al comando divino e venne inghiottito da un grande pesce. Questo parallelo biblico introduce una dimensione teologica nella narrazione, suggerendo che l’incontro tra Yonatan e Sergei rappresenti un momento di prova spirituale.
La figura di Giona nella tradizione ebraica è associata alla resistenza all’autorità divina e alla successiva accettazione della propria missione profetica. Yonatan, nel racconto di Keret, assume funzione di catalizzatore che costringe Sergei a confrontarsi con la propria condizione esistenziale.
La sua ricerca documentaristica sui sogni umani può essere interpretata come un’investigazione sulla natura profonda dei desideri, tema centrale tanto nella fiaba pushkiniana quanto nella riflessione esistenziale contemporanea. Il parallelo con Giona suggerisce una riflessione sulla responsabilità individuale nei confronti della comunità: così come Giona dovette accettare la propria missione verso Ninive, Sergei viene posto di fronte alla scelta tra l’isolamento egoistico e l’apertura verso l’altro.
La presenza dell’elemento acquatico in entrambe le narrazioni (il pesce nel racconto di Keret, il grande pesce che inghiotte Giona) rafforza questa connessione simbolica. La strategia narrativa di Keret di inserire elementi surreali in contesti realistici trova nel racconto del pesce d’oro una delle sue espressioni più efficaci. L’ambiguità linguistica del termine “goldfish/dag zahav” diventa così uno strumento per esemplificare in un senso alegorico le tensioni identitarie della società israeliana contemporanea, dove tradizioni culturali diverse si confrontano e si stratificano.
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