I palestinesi possono participare alla democrazia in Israele?

Non è corretto affermare che tutti i palestinesi non partecipino alla vita democratica in Israele, come talvolta si sente dire dalla propaganda antisionista; la realtà è come sempre molto più complessa e differenziata, a seconda del contesto territoriale e dello status giuridico. Circa il 20-21% della popolazione israeliana è costituito da palestinesi con cittadinanza israeliana, detti anche palestinesi del ’48. Questi cittadini hanno diritto di voto e partecipano alle elezioni israeliane. Alcuni partiti palestinesi partecipano regolarmente alla Knesset, anche se con difficoltà a influenzare le politiche di stato, trattandosi comunque di una minoranza.

Il termine “palestinesi del 48” si riferisce alle popolazioni native di lingua araba che vivevano all’interno dei confini dello Stato di Israele al momento della sua fondazione nel 1948, dopo la guerra arabo-israeliana e la Nakba, cioè la “catastrofe” dell’esodo, durante la quale circa 700.000 di loro furono costretti a fuggire o furono espulsi dalle loro terre. Quelli che non fuggirono o non furono espulsi, rimasero all’interno dei nuovi confini israeliani e ottennero la cittadinanza. Essendo cittadini israeliani, hanno diritto di voto e possono partecipare alle elezioni nazionali e locali in Israele.

Tuttavia, la situazione si è progressivamente aggravata con l’ascesa di correnti suprematiste nel governo israeliano. Un momento simbolico di questa deriva è stata l’approvazione nel 2018 della Legge dello Stato-Nazione del Popolo Ebraico, una legge di stampo razzista promulgata da un governo dalle caratteristiche neofasciste. Questa legge ha definito Israele come “stato-nazione del popolo ebraico” senza riconoscere i diritti delle minoranze, consolidando discriminazioni strutturali che colpiscono anche i cittadini arabi israeliani, nonostante il loro diritto formale di voto.

Non serve ricordare che la guerra del 1948 fu scatenata dal rifiuto arabo del piano di spartizione stabilito in modo unilaterale dall’ONU e dall’intervento militare dei paesi arabi contro il neonato Stato di Israele, che a sua volta si difese e consolidò la propria esistenza, conquistando nuovi territori. I palestinesi che non hanno diritto di voto sono quelli che vivono nei territori occupati dalla guerra del 1967, originata sempre dal mancato riconoscimento dello stato di Israele da parte dei paesi di lingua araba circostanti, in modo particolare Siria, Libano, Egitto, Giordania: la tensione militare aveva portato a un attacco aereo preventivo da parte di Israele, che a quel punto occupò la Cisgiordania, la striscia di Gaza e le alture del Golan.

Una parte di quei territori è stata sgomberata dalle truppe militari, ma rimane sotto il controllo indiretto di Israele, pur non facendo parte formalmente del suo territorio, il resto è occupato illegalmente e i residenti di lingua araba in quelle regioni vengono considerati residenti permanenti (con diritto di revoca unilaterale della residenza da parte del governo israeliano) ma non hanno la cittadinanza e per questo motivo non possono partecipare alla vita politica del paese. In Cisgiordania e Gerusalemme Est, circa 650.000 coloni ebrei possono votare, mentre quasi 3 milioni di palestinesi non hanno diritto di voto, ma quei territori in realtà non fanno parte dello stato di Israele, sono solo territori occupati militarmente in seguito a una guerra e mai smilitarizzati.

La questione ovviamente è controversa, la comunità internazionale non riconosce il diritto all’occupazione e sta chiedendo da anni a Israele di restituire quelle terre alla comunità palestinese, per formare il famoso stato di Palestina. L’accordo però non si trova, sia per le correnti dell’estrema destra suprematista israeliana, sia per le speculari fazioni teocratiche palestinesi, nessuna delle quali riconosce la legittimità dell’altra, ponendosi in uno stato di guerra permanente.

È importante sottolineare che il problema non risiede nella natura dello stato ebraico o del sionismo in sé, ma è conseguenza di politiche suprematiste che stanno tentando una vera e propria pulizia etnica. L’oscurantismo dei suprematisti israeliani vorrebbe annettere l’intera Palestina e deportare altrove la sua popolazione, mentre le correnti più radicali dei palestinesi, con la teoria “Dal fiume al mare”, si pongono esattamente gli stessi intenti della destra israeliana: la cancellazione dello stato avversario e l’annessione dei suoi territori in un unico stato mono-etnico. Entrambe queste posizioni sono specularmente suprematiste e impediscono qualsiasi soluzione pacifica.

Sradicando il fascismo dal governo israeliano si potrà togliere anche quella vergognosa legge del 2018 e riprendere il filo interrotto delle trattative. Allo stesso modo, è necessario che la leadership palestinese abbandoni definitivamente le retoriche suprematiste e riconosca il diritto all’esistenza di Israele. Israele, contando sulla propria supremazia tecnologica, economica, militare; la Palestina, soverchiata dalla supremazia dell’avversario, può contare soltanto sulla guerriglia e il terrorismo. Non essendovi accordo, permane la situazione di apartheid e di occupazione che impedisce una libera partecipazione delle popolazioni di lingua araba alla vita politica di Israele, o la nascita di uno Stato di Palestina.

Non è corretto dunque affermare che i palestinesi non abbiano diritto di partecipare alla vita politica in Israele, è semmai vero il contrario: la minoranza di arabi israeliani è divisa in una parte che partecipa alle elezioni e si candida, con i propri partiti politici, e una parte che rifiuta di farlo perché non riconosce la legittimità dello Stato di Israele. Nei territori occupati, permane una condizione di conflitto perpetuo, che da entrambe le parti non trova una soluzione condivisa e purtroppo, il peso di questa ostilità lacerante a livello della dirigenza, scarica interamente sulla popolazione palestinese, causando un apartheid di fatto, e la tragedia del genocidio in corso.

Il problema dunque non sta nella partecipazione dei palestinesi alla vita democratica del paese, ma nella risoluzione del conflitto relativo ai territori occupati: se non si estirpano le idee suprematiste nell’una e nell’altra parte, se non si perviene all’unica soluzione possibile, quella dei due popoli in due stati, la situazione può solo continuare a degenerare. Bisogna porre fine a questo orrore, perché tutti i cittadini palestinesi abbiano il diritto a partecipare alla vita politica dei rispettivi paesi in cui risiedono.


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