Sion costruita col sangue. Michea 3:9-12

Il Profeta Michea, venerato anche dalla Chiesa Cattolica. Pedro de Campaña, Pala dei Profeti, Cattedrale di Sevilla, sec. XVI

Ascoltate dunque, capi di Giacobbe e governanti della casa d’Israele, che odiate la giustizia e pervertite il diritto. Che costruite Sion con il sangue e Gerusa-lemme con l’iniquità; i suoi capi giudicano per doni, i suoi sacerdoti insegnano per ricompensa, e i suoi pro-feti predicono per denaro; e si appoggiano al Signore, dicendo: “Il Signore è in mezzo a noi; nessun male ci accadrà”. Perciò, a causa vostra, Sion sarà arata co-me un campo, e Gerusalemme diventerà un cumulo di rovine, e il monte del tempio come un’altura boscosa.

Michea, 3:9-121


Nel contesto della tragedia attualmente in corso nei territori occupati da Israele a danno della popolazione palestinese, mi sento di porre l’accento sul fatto che la politica del governo e di tutti i militanti dell’estrema destra israeliana dal 1948 a oggi, è oggetto di anatema nella stessa Torah e come tale incompatibile con l’idea stessa del sionismo, non solo di quello moderno.

Quello che prenderemo in esame nelle note che seguono è il passo biblico dal Libro di Michea 3:9-12, contestualizzando le strutture di potere e l’oppressione denunciata dal profeta dell’VIII secolo a.C., un testo di inquietante rilevanza interpretativa nell’analisi del conflitto israelo-palestinese contemporaneo. S’intende qui isolare e mettere a nudo i meccanismi che sottendono l’idea di una Sion costruita col sangue, di cui uno dei più importanti profeti di Israele parla in modo chiaro e inequivocabile nel testo biblico, analizzandone le manifestazioni attuali nelle dinamiche di controllo territoriale e demografico osservabili nel contesto palestinese.

Si tenga presente che la letteratura profetica vetero-testamentaria viene usata dagli stessi teorici del nazionalismo palestinese come una fonte primaria per lo studio delle dinamiche politiche nell’antico Medio Oriente, in quanto pubblicazioni storicamente determinate, che possono dunque restituire testimonianze storiografiche sui meccanismi di legittimazione del potere e sulle forme di resistenza culturale elaborate dalle società antiche. Il corpus profetico di Michea, databile all’VIII secolo a.C., costituisce un documento particolarmente di indubbio interesse, presentando una critica sistematica dell’organizzazione sociale del regno di Giuda.

Il presente contributo si inserisce nel filone di studi che applicano gli strumenti dell’antropologia culturale all’analisi dei testi biblici, con particolare attenzione alle forme di critica sociale elaborate dalla tradizione profetica. L’obiettivo è quello di identificare i pattern ricorrenti nelle dinamiche di oppressione e resistenza, verificandone la persistenza nel contesto contemporaneo attraverso l’esame del caso palestinese. L’approccio metodologico adottato integra l’analisi del testo biblico con gli strumenti dell’antropologia politica e dell’antropologia del conflitto. La ricerca si articola attraverso tre livelli di analisi: l’esame delle strutture sociali denunciate da Michea nell’antico regno di Giuda, l’identificazione dei processi culturali ed economici di legittimazione del potere, e l’applicazione di tali categorie interpretative ai territori occupati in Palestina.

Il periodo di attività profetica di Michea coincide con una fase di trasformazione del regno di Giuda, le fonti archeologiche documentano un processo di urbanizzazione accelerata e di concentrazione della ricchezza che aveva prodotto una stratificazione sociale marcatamente gerarchica; il sistema tributario assiro, cui il regno era sottoposto, aveva intensificato la pressione fiscale sulla popolazione rurale, generando fenomeni di indebitamento e di espropriazione terriera.


In questo contesto, l’élite dirigente aveva sviluppato meccanismi di accumulazione basati sulla manipolazione del sistema giudiziario e sulla mercificazione delle funzioni pubbliche.


Il passo di Michea 3:9-12 documenta con precisione questi processi, identificando tre livelli di corruzione: la venalità del sistema giudiziario, la commercializzazione dell’istruzione religiosa e la subordinazione dell’attività profetica agli interessi economici dell’élite. Il testo presenta una struttura retorica tripartita che procede dalla denuncia specifica alla minaccia escatologica: la prima sezione identifica i soggetti della critica profetica nei capi della casa di Giacobbe e i governanti della casa d’Israele, evidenziando la tensione tra l’ideale comunitario, l’utopia teocratica di Israele (caratteristica di quel momento storico) e la realtà dell’egemonia politico-economica.

La sezione centrale sviluppa a sua volta la metafora architettonica del costruire Sion col sangue e Gerusalemme con il sorpuso, che costituisce il nucleo concettuale dell’intero passo: Michea pone qui in evidenza la natura intenzionale, non occasionale o accidentale, dell’oppressione, presentandola come strategia deliberata di consolidamento del potere, identificando la violenza come fondamento dell’ordine sociale contestato.

La terza sezione articola la risposta divina attraverso la minaccia della distruzione totale, che assume carattere speculare rispetto alla costruzione denunciata: se Sion è stata costruita con sangue, diventerà un mucchio di rovine; se Gerusalemme è stata edificata con soprusi, sarà arata come un campo. La denuncia di Michea rivela una comprensione profonda dei meccanismi di legittimazione del potere nelle società stratificate di allora, che non si discosta molto da quelli moderni; la critica profetica non si limita alla condanna morale dei comportamenti di ogni singolo figlio di Sion, ma identifica le strutture che rendono possibile la riproduzione dell’ingiustizia: il riferimento alla mercificazione delle funzioni giudiziarie, educative e religiose, documenta un processo di trasformazione in cui le relazioni vengono progressivamente subordinate alla logica dello scambio economico, quello che più avanti gli Apostoli del Nazareno svilupperanno nella parabola dei mercanti nel Tempio.

Particolarmente significativa è l’osservazione relativa all’uso strumentale della religione da parte dell’élite dominante, che si appoggia al Signore nel giustificare e perpetuare sistemi oppressivi: questa sacralizzazione del potere, che trasforma l’autorità politica in mandato divino, neutralizza ogni possibilità di critica e resistenza facendo discendere le scelte politiche direttamente da una rivelazione dogmatica, unilaterale.

L’applicazione delle categorie interpretative elaborate attraverso l’analisi del testo micheano al contesto palestinese contemporaneo mette in chiaro la tragedia della continuità nelle modalità di esercizio del controllo territoriale e demografico, la metafora del costruire con sangue trova corrispondenza nelle politiche di espansione territoriale implementate attraverso il sistema degli insediamenti abusivi, che ha comportato l’espropriazione sistematica di terre palestinesi e la frammentazione del territorio attraverso una rete di infrastrutture militari e civili, contro le quali il governo di Israele non è stato mai in grado di prendere le drastiche, ma necessarie posizioni, che avrebbero potuto contribuire a risolvere parte delle tensioni sul territorio

La sistematica distruzione di strutture abitative, educative e sanitarie palestinesi, l’imposizione di restrizioni alla libertà di movimento nei territori occupati e l’applicazione di un sistema giuridico differenziato in base all’appartenenza etnica e religiosa, tutte queste politiche configurano un controllo demografico del territorio paragonabile a uno stato di apartheid, non tanto all’interno dei confini di Israele quanto nei territori su cui, secondo il mandato dell’ONU, sarebbe dovuto sorgere lo stato di Palestina, un controllo esplicitamente finalizzato alla modificazione della composizione etnica e religiosa di specifiche aree geografiche, come si legge in alcune dichiarazioni di esponenti dei partiti di maggioranza attualmente alla guida di Israele.

L’analisi antropologica rivela inoltre la persistenza dei meccanismi di legittimazione identificati da Michea, in particolare l’uso strumentale di narrazioni religiose e storiche per giustificare politiche di dominio territoriale: la pretesa di Gerusalemme come città eterna e indivisa non è che un esempio paradigmatico di questo processo, in cui riferimenti biblici e archeologici vengono utilizzati per conferire legittimità teologica a progetti di controllo politico e territoriale mai riconosciuti dalla comunità internazionale. Le conseguenze di tali politiche si manifestano attraverso la disgregazione delle strutture comunitarie tradizionali e la produzione di forme specifiche di violenza su base etnica.

La frammentazione territoriale impedisce il mantenimento delle reti di parentela e dei circuiti economici locali, mentre le restrizioni alla mobilità compromettono l’accesso ai luoghi di culto e alle istituzioni educative, interferendo con i processi di trasmissione culturale intergenerazionale. Il fenomeno assume particolare rilevanza nell’area di Gerusalemme Est, dove le politiche di revoca del diritto di residenza e di demolizione delle abitazioni hanno prodotto un vero e proprio ‘spazio liminale’, caratterizzato dalla precarizzazione permanente delle condizioni di vita e dall’incertezza giuridica rispetto allo status territoriale e civile degli abitanti.

L’analisi comparativa tra il contesto dell’VIII secolo a.C. e la situazione palestinese contemporanea, evidenzia significative continuità nelle strategie di controllo sociale e territoriale: in entrambi i casi si osserva l’utilizzo della violenza come strumento di riorganizzazione demografica e territoriale, l’applicazione di sistemi giuridici differenziati basati sull’appartenenza etnica o tribale, e l’impiego di legittimazzioni religiose per giustificare politiche oppressive.


Se da un lato il sistema denunciato da Michea operava all’interno di un quadro politico relativamente omogeneo dal punto di vista etnico e religioso, mentre il caso palestinese presenta la complessità aggiuntiva di un conflitto interetnico e interreligioso che coinvolge questioni di autodeterminazione nazionale e di riconoscimento reciproco, dall’altro il contesto proprio dell’VIII secolo nella narrazione biblica si sviluppa comunque su una violenza pregressa, quella narrata nel libro di Giosuè e teorizzata nello stesso Deuteronomio, in cui si parla esplicitamente di una vera e propria pulizia etnica operata dai primi conquistatori, al tempo di Giosuè.


Vi è tuttavia una fondamentale differenza, tra il contesto di Michea e quello contemporaneo, da identificarsi nella presenza di un sistema di istituzioni sovranazionali che, pur con tutti i loro limiti, hanno elaborato strumenti (anche giuridici) di condanna della politica israeliana nei territori occupati, risorse non disponibili nell’antichità. Questo aspetto introduce una dimensione di responsabilità collettiva che trascende i confini del conflitto locale e rimanda all’ultima parte del testi di Michea, quella della maledizione escatologica, consistente nella istruzione di Israele, che ritorna nell’ipotesi da alcuni avanzata di due popoli in uno stato, ma non israeliano bensì palestinese. Cioè, la fine di Israele: il testo di Michea pone esattamente la stessa problematica, profetizzando la distruzione del Tempio e la dispersione dei figli di Sion.

Il presente studio contribuisce dunque all’antropologia del conflitto identificando pattern ricorrenti nelle dinamiche di oppressione, che vanno ben oltre le specificità temporali e geografiche: l’analisi qui esposta evidenzia come la violenza strutturale operi attraverso la combinazione di controllo territoriale, manipolazione giuridica e legittimazione ideologica, configurando sistemi di dominio che si auto-perpetuano attraverso la produzione di esclusione sociale e trauma collettivo. Dal punto di vista metodologico, la ricerca solleva questioni rilevanti relative all’applicazione di categorie interpretative derivate da contesti storici antichi all’analisi di situazioni contemporanee.

Si segnala l’importanza di una distinzione fondamentale posta in apertura di queste note, nell’uso di testi biblici come strumenti di critica sociale, tra l’analisi del testo come narrazione e la sua utilizzazione ideologica, evitando sia l’anacronismo interpretativo sia la strumentalizzazione politica. Dal punto di vista applicativo, l’analisi suggerisce la necessità di approcci multidisciplinari alla risoluzione dei conflitti che tengano conto delle dimensioni antropologiche e culturali, oltre che politiche ed economiche; la comprensione dei meccanismi profondi attraverso cui si strutturano sistemi di oppressione come quello in atto nei territori occupati, può contribuire all’elaborazione di strategie di intervento più efficaci e culturalmente appropriate.

La metafora micheana del costruire con sangue e soprusi si rivela uno strumento interpretativo efficace per l’analisi delle dinamiche di controllo territoriale e demografico, offrendo categorie concettuali che mantengono la loro rilevanza analitica nel contesto contemporaneo; allo stesso tempo, l’analisi sottolinea la necessità di approcci interpretativi che tengano conto delle specificità contestuali, evitando generalizzazioni inappropriate e strumentalizzazioni ideologiche.


Il fatto cioè che la critica a questa politica irresponsabile e criminale provenga proprio dalla Torah, testo fondamentale di tutto l’impianto ideologico su cui è stato edificato il sionismo antico, rende vana l’attribuzione di questa violenza genocida all’ebraismo o al giudaismo in quanto tali.


La tradizione profetica, nella sua funzione di critica sociale, offre strumenti concettuali per l’identificazione e l’analisi della violenza e dell’oppressione, ma la sua applicazione ai contesti contemporanei richiede rigore metodologico e consapevolezza delle implicazioni etiche e politiche nell’interpretazione, tenendosi lontani dalle facili generalizzazioni di stampo più o meno velatamente antisemita che si ravvisano in acuni slogan della propaganda contemporanea, anche nell’area progressista.

Solo attraverso un approccio di tipo storico-documentario è possibile utilizzare tali strumenti per contribuire alla comprensione critica delle dinamiche attuali e all’elaborazione di prospettive di trasformazione sociale basate sulla giustizia e sul rispetto dei diritti umani. Il presente studio vuole porsi come un contributo preliminare a questo campo di ricerca, aprendo prospettive per ulteriori approfondimenti che possano arricchire la comprensione dei fenomeni di oppressione e resistenza, ponendo le basi per la legittimazione di uno Stato di Palestina negli attuali territori occupati e una politica del disarmo in Medio Oriente.


Note

1Il testo traslitterato dall’ebraico: “Shim’u na, rashei Ya’akov usarei beit Yisrael, hassonei mishpat umo’avvei tzedek. Habonim Tziyyon baddam vi Yerushalayim be’avel; rasheha shoftim le-mattar, vekohaneiha lomdim le-machmas, unevi’eiha megaddfim bekesef v’yo’atzeiha menabbe’im lammerchak. Al-ken bechaspechem tittenu shoftim vero’shei am be-machmas yimlochu. Ve’et-Tziyyon yittenu lesadeh viYerushalayim lechomah vehar-beit Adonai legiv’ah ya’arah”.


Approfondimenti


Condividi