Sulla legittimità del blocco navale israeliano

Illustration Artwork by Federico Berti. Created with Gimp/GPT

Quando due interessi entrano in contrasto, la società civile ricorre all’arbitrato neutrale di una parte non coinvolta, per l’appunto il sistema giudiziario. Lo chiamiamo dunque Stato di Diritto, proprio perché la giustizia serve a evitare il ricorso alla forza bruta. Bisogna però che tutte le parti riconoscano l’arbitro esterno, ovvero quelle istituzioni preposte alla soluzione dei conflitti, altrimenti il sistema non può operare. Israele applica il blocco navale davanti a Gaza basandosi su un diritto internazionale consuetudinario relativo ai conflitti armati, considerandolo un metodo di guerra lecito per impedire il contrabbando di armi verso gruppi armati palestinesi. Israele sostiene che il blocco di guerra non rivendica sovranità sulle acque, ma è una misura di sicurezza che si può imporre anche in acque internazionali. Si potrebbe discutere a lungo su questo tema, ma prendiamolo (momentaneamente) per buono. Il problema del blocco navale israeliano, è che la stessa legge consuetudinaria invocata da Netanyahu non può avere come obiettivo lo sterminio per fame della popolazione civile, né negare l’afflusso di beni essenziali, questo in base a un testo che Israele ha riconosciuto e ratificato, la IV Convenzione di Ginevra.

Secondo gli articoli 33, 55, 59, nessuna persona può essere punita per un atto non commesso o per sospetto di atto non commesso, è proibito infliggere punizioni collettive, non si possono distruggere o confiscare proprietà, salvo quando tali atti siano assolutamente necessari per operazioni militari; la popolazione civile e gli enti della protezione civile devono essere riforniti in tempo di guerra di viveri, medicinali e tutte le altre necessità fondamentali, nell’ambito delle possibilità, tramite le parti in conflitto o da organizzazioni riconosciute. Non si possono adottare misure che causino la privazione di tali beni provocando carestia o sofferenze per la popolazione civile. Se una parte in conflitto interdice le vie di comunicazione con il risultato di privare i civili di viveri essenziali, deve consentire ai rifornimenti umanitari di passare attraverso la zona soggetta al blocco. Quindi in base alla IV Convenzione di Ginevra, riconosciuta da Israele, in caso di blocco militare per legge consuetudinaria, si deve consentire l’afflusso dei beni primari e l’apertura del corridoio umanitario.

Per rispondere a queste obiezioni, le autorità israeliane si sono appellate al (risibile) pretesto che Hamas possa impiegare materiali ad uso civile per scopi militari, trasformando ad esempio tubi idrici in razzi, utilizzando cemento destinato a scuole e ospedali per costruire tunnel di infiltrazione; secondo questa prospettiva, anche carichi umanitari potrebbero contenere materiali a doppio uso che rafforzerebbero le capacità militari di Hamas. Sarebbe come dire che impedisco l’ingresso del sapone, dal momento che puoi usarlo per ricavarne dell’esplosivo: non esiste in realtà una legge che legittimi la violazione della Convenzione di Ginevra, in risposta alla semplice eventualità di utilizzo militare dei materiali civili, ma solo norme che regolano l’esportazione e il controllo di beni a duplice uso (dual use) per evitare abusi.

Sulla base di quanto detto, il blocco militare israeliano in assenza di corridoi umanitari permanenti è illegale per la stessa legge riconosciuta da Israele, quindi chi lo ha ordinato e lo sta perseguendo ostinatamente, sta compiendo un crimine contro l’umanità perseguibile dalla giustizia dello stesso stato che Netanyahu governa. Si, hai letto bene: la Corte Suprema di Israele può intervenire sulle decisioni governative ritenute illegali o incostituzionali, ha il potere di salvaguardare i diritti civili e le minoranze nel paese. Perché non interviene, allora? Qui si complica il discorso perché negli ultimi anni il governo Netanyahu ha promosso una riforma del sistema giudiziario, con la quale limita la capacità della Corte di bocciare decisioni governative e cambia il modo in cui i giudici vengono nominati, mettendo in parte il potere di nomina nelle mani del governo. La riforma giudiziaria del 2023 ha scatenato proteste di massa in Israele, per cui si è pensato bene di congelarla (non abolirla) nel marzo dello stesso anno.

Ora vorrei si prestasse particolare attenzione a questo passaggio, perché la Corte Suprema d’Israele può essere investita di ricorsi da qualsiasi cittadino, organizzazione o gruppo, anche attraverso petizioni di massa contro le azioni governative ritenute illegali, come violazioni del diritto umanitario o violazioni di leggi nazionali. Non può agire di propria iniziativa in modo indipendente, ma può decidere di accettare e prendere in considerazione ricorsi presentati da terzi o enti qualificati. Bene, diverse associazioni israeliane per i diritti umani hanno presentato petizioni negli ultimi anni, chiedendo di imporre legalmente alla giunta suprematista di Netanyahu il rispetto del diritto umanitario internazionale, consentendo il passaggio dei convogli umanitari a Gaza, petizioni rigettate nel marzo 2025 sulla base di fonti rabbiniche: una commistione tra diritto giuridico e argomentazioni religiose, che si allontana dai principi della laicità. Altre petizioni sono state presentate contro leggi del governo considerate discriminatorie verso ONG o in violazione dei diritti fondamentali, ma la Corte continua a mostrarsi riluttante a intervenire in modo incisivo.

Ecco dunque il motivo per cui la Flottila e le missioni umanitarie dei pacifisti respingono con forza le accuse di antisemitismo. La strategia di forzare il blocco navale attraverso missioni umanitarie disarmate, produce effetti che vanno oltre la consegna immediata di aiuti a Gaza: essa crea una pressione internazionale documentata che supporta quei gruppi israeliani dissidenti, i quali si battono contro la deriva autoritaria e teocratica del governo Netanyahu; quando organizzazioni come Gisha e Phri presentano petizioni alla Corte Suprema, la loro argomentazione si rafforza ogni volta che una nave umanitaria viene fermata o abbordata in acque palestinesi. La testimonianza di questi eventi, alimenta il dibattito pubblico interno israeliano, dove una parte significativa della popolazione è sinceramente preoccupata per la direzione che sta prendendo il paese.

Le manifestazioni di massa del 2023 contro la riforma giudiziaria hanno dimostrato che esiste in Israele una società civile vigile, organizzata, che non accetta passivamente lo smantellamento dei contrappesi democratici: le missioni umanitarie internazionali si inseriscono in questo contesto come alleate oggettive di tali forze interne, dimostrando che il governo sta violando non solo il diritto internazionale, ma anche i valori fondanti dello stesso Stato di Israele, come democrazia liberale. In questo senso, sostenere il diritto umanitario a Gaza significa anche sostenere la democrazia israeliana, contro chi vorrebbe trasformarla in una teocrazia autoritaria.


Approfondimenti


Condividi