I Proverbi e la Divinazione

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Oltre l’Etnocentrismo

La definizione tradizionale del proverbio come espressione folklorica legata a contesti dialettali specifici, o a repertori geolocalizzati, circoscritti, ha limitato la comprensione di quel che i proverbi hanno rappresentato per millenni e di cosa potrebbero rappresentare ancora. Il superamento della visione etnocentrica porta a riconsiderare il proverbio non più come un fossile linguistico residuale, rassicurante arcaismo tradizionalista, ma come una cellula cognitiva elementare1.

Prendiamo ad esempio un classico riportato in diversi repertori di proverbi regionali, chi va al mulino s’infarina: frase elementare, priva di rime interne, allitterazioni, partizioni semantiche, ritmo o metrica particolari. Nonostante l’apparente semplicità, questa frase possiede i requisiti della proverbialità, ma possiamo declinarla ricavandone altri enunciati elementari2: chi va al fiume si bagna, chi attraversa il fuoco si brucia e così via, senza alterarne la funzione cognitiva fondamentale. Possiamo esprimere lo stesso concetto in versi esametri, in terza, ottava rima, in settenari a rima baciata o alternata, inserendovi giochi di parole, paradossi, traducendola in qualche dialetto (vivo o morto) senza alterarne l’equilibrio; tuttavia se la pronunciassimo da sola, come una semplice proposizione, non avrebbe molto senso: diventa un proverbio nel momento in cui la inseriamo in un discorso assegnandole quella funzione3.

Trasformando il latino Sursum corda nelle sue declinazioni popolari (gente allegra Dio l’aiuta, l’allegria è d’ogni male il rimedio universale e così via) la cellula di ragionamento rimane inalterata indipendentemente dalla forma espressiva: ogni modifica degli elementi costitutivi genera nuovi proverbi con messaggi completamente diversi, in tal modo creando un sistema aperto alla produzione di senso attraverso ricombinazioni creative di elementi semplici4. Se ad esempio incitiamo qualcuno a levare in alto le teste, o i giavellotti, in luogo dei cuori, otteniamo un messaggio completamente diverso ma sempre spendibile in senso metaforico e a titolo esemplificativo.

Questa ridefinizione del proverbio in base alla sua funzione cognitiva consente di uscire dalla visione ristretta, provinciale, etnocentrica, del proverbio come elemento residuale, consentendo di tracciare una continuità fra le tradizioni regionali (o nazionali), e i repertori di sentenze sapienziali elaborati in ogni tempo e luogo. Si pensi al cinese Libro dei Mutamenti5, che associa a una logica binaria fondata sul principio di luce e ombra, un corpus di sentenze elementari da impiegare come chiave interpretativa del mondo: frasi ricorrenti nell’oracolo tanto amato da Jung, come propizia è perseveranza, drago superbo avrà da pentirsi, puoi trasferire la città ma non il pozzo, trovano corrispondenze nei repertori regionali europei: chi la dura la vince, la superbia va a cavallo e torna a piedi, non si porta il pozzo in piazza, e così via: cambia l’aspetto formale, non la natura fondamentale del proverbio, che rimane una cellula elementare di ragionamento, un’immagine agente nella memoria, un tassello di pensiero modellizzato.

Questi formulari canonici li ritroviamo più o meno in tutte le culture e in ogni epoca storica, si pensi al Talmud6 ebraico e alle massime contenuto nel Pirkei Avot, ricombinate e reinterpretate nel Midrash7 per ottenere potenzialmente infinite variazioni di uno stesso nucleo concettuale; la tradizione cabalistica ha sviluppato un sistema periodico aperto nel Sepher Yetzirah e nello Zohar organizzando il repertorio secondo schemi simbolici, geometrici, matematici, modulari. Anche in questo caso tuttavia, motti come chi salva una vita salva il mondo intero, il saggio non dice tutto quel che pensa ma pensa tutto quel che dice, non si giudica un uomo dal suo cadere bensì dalla capacità di rialzarsi, trovano corrispondenza nei repertori regionali di tradizione europea: ogni uomo è tutto l’uomo, il saggio pensa più di quel che dice, sbagliando s’impara e così via.

Nel mondo arabo si è sviluppato fin dal VII secolo intorno ai repertori di sentenze proverbiali un sistema combinatorio detto ilm al-raml (Scienza della Sabbia), basato sulla lettura di segni sulla terra, tracciati da semi o sassi e interpretati come messaggi divinatori: il sistema basato su sedici figure binarie posizionate nelle dodici case astro-logiche, ogni figura associata a un corpus di massime, funzionava come un generatore di proverbi stimolando l’applicazione creativa del repertorio sapienziale alle circostanze particolari8. Ancora una volta le intersezioni tra repertori non sono occasionali, ad esempio la scimmia è come una gazzella agli occhi di sua madre, affida il tuo cammello alla provvidenza di Dio ma legalo prima ad un albero, non bastano tutti i cammelli del deserto per comprarti un amico, assolvono in un discorso la stessa funzione cognitiva di ogni scarrafone è bell’a mamma so, aiutati che Dio t’aiuta, chi trova un amico trova un tesoro e così via.

L’approccio comparativistico qui adottato non serve all’appiattimento semantico o all’omologazione culturale, ma permette di cogliere un aspetto che la trattatistica regionalista aveva perso di vista e cioè che tutti i sistemi sapienziali di sentenze pronte all’uso, erano anticamente accomunati dall’associazione a sistemi speculativi che utilizzavano meccanismi combinatori9 per selezionare un proverbio a caso dal repertorio e adattarlo a un contesto dato, per stimolare la semplificazione addestrando l’immaginazione attiva e potenziando l’intuizione. Nel mondo classico ad esempio, ogni verso dei pemi omerici, poi dell’Eneide virgiliana10, funzionava come cellula cognitiva elementare, si usavano cioè i versi dei componimenti epici come formule ricorrenti, anche in situazioni che nulla avevano a che vedere con la sorte di Enea e compagni: un sistema non dissimile da quello testimoniato intorno ai Libri sibillini11 che secondo tradizioni latine dovevano essere custoditi dalle sacerdotesse di Apollo, dove i motti sapienziali venivano trascritti su tessere indipendenti, che si rimescolavano come ancora oggi si fa con le carte dei Tarocchi.

Con l’avvento del Cristianesimo le cosiddette Sortes Virgiliane vennero a loro volta rielaborate in Sortes Biblicae12 e Sortes Sanctorum che operavano secondo gli stessi principi di catalogazione dei repertori e selezione casuale del singolo motto, epurando la pratica da ogni possibile implicazione superstiziosa o magico-animistica e presentandola nella più neutra forma della lectio divina13; l’apertura casuale delle Scritture serviva a rompere le routine interpretative abituali, costringendo il praticante a confrontarsi con passaggi inaspettati elaborando nuove strategie di interpretazione.

La comprensione corretta di questi sistemi richiede il superamento del pregiudizio moderno che vede in essi delle pratiche pericolosamente inclini all’animismo; in realtà lo stesso Plutarco, già sacerdote al tempio delfico di Apollo, chiarì in un trattatello sulla Superstizione14 che il politeismo antico scoraggiava e condannava la credulità popolare, associandola al peggiore dei peccati: quello di hybris, la superbia nei confronti del numinoso. Plutarco distingueva chiaramente tra il fenomeno dell’ispirazione oracolare e la presunzione di poter comandare angeli e demoni: l’intervento del numen proponeva spunti di riflessione che però andavano poi elaborati dall’interprete per produrre un senso: questa mediazione trasformava la consultazione oracolare in un esercizio di meditazione intorno ai detti sapienziali.

La casualità combinatoria stimolava l’immaginazione costringendola a confrontarsi con percorsi imprevisti, insoliti, dando impulso all’insorgere di intuizioni che difficilmente sarebbero emerse attraverso l’applicazione meccanica di schemi interpretativi prevedibili. Il sistema stesso favoriva una memorizzazione profonda del repertorio, oltre che un esercizio guidato nell’interpretazione. Questi sistemi condividevano dunque la funzione pedagogica di addestrare la mente all’uso flessibile e creativo del patrimonio sapienziale riconosciuto. Il processo garantiva anche un intervento continuo sui repertori, che potevano (anzi, dovevano) evolversi in accordo con i tempi, impedendone la cristallizzazione in formule morte15.

La riscoperta della natura combinatoria del sapere proverbiale si adatta anche alla modernità: tutte le arti della memoria a partire dall’Ottocento hanno operato come sistemi di rielaborazione del materiale sapienziale, cioè di quelle cellule cognitive che troviamo nei repertori dei proverbi regionali italiani ed europei. La catalogazione di questi ultimi, scorporata dal complesso sistema speculativo, filosofico e artistico, cui venivano tradizionalmente associati, ha impoverito la comprensione della loro natura riducendo a repertori statici quelli che originariamente costituivano sistemi di generazione periodica del senso16. La lettura dei Tarocchi, dei temi astrologici, dei sogni, dei disegni nelle nuvole, delle macchie sul muro, della mano o di qualsiasi altro sistema combinatorio, doveva essere in qualche modo funzionale alla produzione di senso, che poggiava sempre sulla semiosi delle cellule cognitive elementari, quei formulari sapienziali riallocati come precetti morali, etici, inviti all’azione senza i quali nessun processo combinatorio avrebbe significato17. Il recupero di questa prospettiva funzionale apre nuove opportunità di ricerca per comprendere come il sapere proverbiale abbia storicamente operato, non solo come veicolo di trasmissione culturale, ma come strumento per addestrare e consolidare il pensiero divergente attraverso un potenziamento dell’immaginazione attiva18.

In concusione, i proverbi operano come cellule elementari di ragionamento, chiavi interpretative dell’esperienza umana. Non sono reliquie d’un passato da idealizzare, ma uno strumento attivo che continua a operare nei processi di elaborazione del pensiero e di interpretazione della realtà. Da ogni proverbio, possono e devono nascere nuovi proverbi, affinché la tradizione non cristallizzi in un cimitero della ragione.

Note:

1 A proposito del proverbio come cellula cognitiva elementare, si rimanda alla teoria delle assemblee cellulari di Donald Hebb (1949), secondo cui i processi mentali nascono dall’attivazione sincronica e dal rafforzamento delle reti neu-rali: così come i neuroni formano configurazioni interconnesse, consolidate dalla ripetuta attivazione, i proverbi si consolidano nella mente come nuclei fondamentali del ragionamento e della memoria. Donald O. Hebb, The Organization of Behavior. A Neuropsychological Theory. New York, John Wiley & Sons, 1949

2 Angelo M. Guglielmi, Tradizione orale e sapienza popolare. I proverbi tra memoria e invenzione. Roma, Carocci, 2006, nella sua analisi della sapienza orale e delle formule proverbiali, sottolinea la natura dinamica e ricombinatoria delle massime sapienziali, che conservano una funzione cognitiva fondamentale e condivisa trasversalmente tra culture.

3 Laura Trevini Bellini, Il proverbio: un evento comunicativo fra cultura e ironia. La sperimentazione di una lezione in classi di italiano L2 e LS. Bollettino Itals, 13(59), 2015, 43-63. “Il proverbio diventa significativo solo se inserito in un contesto discorsivo che gli assegna quella funzione comunicativa. Il proverbio funziona come un’unità mnemonica”.

4 Sui proverbi come sistema aperto e dinamico, soggetto a variazioni e creazioni continue da parte dei parlanti, senza perdere la loro funzione cognitiva fondamentale, si veda Temistocle Franceschi, La formula proverbiale, in: Boggione & Massobrio, Dizionario dei proverbi.Torino, UTET, 2004, pp. IX-XVIII.

5 Le sentenze dell’I Ching sono espressioni proverbiali che funzionano come chiavi interpretative della realtà, si presentano come un sistema periodico di enunciati sapienziali che mantengono una funzione paragonabile a quella del proverbio nelle tradizioni orali e scritte, si veda a questo propsito Richard Wilhelm, I Ching. Il Libro dei Mutamenti. Milano, Adelphi, 1991.

6 Amedeo Spagnoletto, Detti e contraddetti del Talmud, Firenze, Giuntina, 2016, ha raccolto e analizzato un ampio repertorio di proverbi e massime dal Talmud, mettendo in luce la loro funzione sapienziale e normativa nella tradizione rabbinica. Il testo mette in evidenza come questi detti costituiscano un sistema dinamico, capace di adattarsi ai temoi e al contesto sociale, in continuità con le tradizioni proverbiali di molte culture.

7 Nel Midrash massime e proverbi sono costantemente ricombinati, adattati, formano un repertorio dinamico e aperto. Angelo M. Guglielmi, op. cit., ne sottolinea la flessibilità confrontandoli con varie tradizioni proverbiali.

8 Per un approfondimento sul ilm al-raml come sistema geomantico combinatorio legato alle massime proverbiali nella tradizione araba, si rimanda ad Alessandro Palazzo, Dibattiti filosofici e scientifici sulla geomanzia nel medioevo latino e arabo. Trans/Form/Ação, 2019, 42, 31-56.

9 Il ricorso a sistemi combinatori per selezionare, adattare e moltiplicare sentenze sapienziali e proverbi è un tratto tipico della tradizione antica e medievale, stu-diato in particolare nell’ambito delle sententiae e dei florilegi. Tali sistemi dinamici stimolano la creatività interpretativa e addestrano l’immaginazione, come evidenziato da Francesco Di Capua, Sentenze e proverbi nella tecnica oratoria e loro influenza sull’arte del periodare, Napoli, 1947.

10 La pratica delle Sortes Virgilianae, diffusa nel mondo antico e medievale, consisteva nell’estrazione a caso di versi dall’Eneide di Virgilio, usati a scopo divinatorio come responsi ispirati. Ogni singolo verso poteva essere interpretato come messaggio oracolare, un sistema di bibliomanzia poetica che aveva un nobile precedente nelle Sortes Homericae e che testimonia l’uso rituale della poesia epica, tale per cui ad ogni verso poetico si accordava lo status di proverbio. Sull’uso divinatorio del poema virgiliano, si rimanda a David Ansel Slater, Sortes Vergilianae, or Vergil Today, Oxford, Blackwell, 1921, dove Slater usa il pretesto delle antiche Sortes Virgilianae per condurre un’analisi su Virgilio come pilastro della cultura occidentale nella prima metà del Novecento.

11 Apollo nel mondo greco-romano si considerava patrono della poesia e della divinazione, da cui l’idea del poeta come vate: ad ogni verso poetico ispirato poteva accordarsi lo status di detto sapienziale. Raymond Bloch, La divinazione nell’antichità, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995, tratta in modo più approfondito la relazione tra poesia e divinazione nel mondo classico.

12 Edoardo Ferrarini, «Sortes biblicae» e tradizioni agiografiche fra IV e VI secolo, Atti del Convegno Auctor et auctoritas in Latinis medii aevi litteris. Author and Authorship in Medieval Latin Literature, Edizioni del Galluzzo, 2014. La pratica delle «sortes biblicae», sviluppatasi a partire dalla rapsodomanzia sui poemi omerici e virgiliani, è documentata nelle fonti agiografiche tra il IV e il VI secolo.

13 William E. Klingshirn, Defining the Sortes Sanctorum: Gibbon, Du Cange, and Early Christian Lot Divination, in ‘Journal of Early Christian Studies’ 10.1, 2022, pp. 77–130. Nella Chiesa delle origini l’uso delle Sortes Sanctorum venne condannato come pratica divinatoria, sebbene ampiamente diffusa nel clero stesso: come riporta Sant’Agostino nell’VIII libro delle Confessioni, l’elezione di San Martino a Vescovo di Tours si svolse secondo una tradizione agiografica aprendo a caso una pagina dei Salmi. A ogni versetto della Bibbia, poteva accordarsi in pratica la funzione cognitiva del proverbio.

14 “Fra tutte le paure, dunque, quella più incapace nella prassi e inetta nel comportamento è la superstizione”. Plutarco, La superstizione. Napoli, D’Auria, 2007. Il fatto che a condannare la superstizione sia proprio un sacerdote di Apollo, per vent’anni in servizio al santuario delfico, induce a ritenere che alle pratiche divinatorie non si attribuisse l’ingenua e morbosa convinzione di poter indovinare il futuro, ma che la mantica fosse da intendersi più nel senso di una meditazione sui futuri possibili, in cui l’intermediazione del modello combinatorio avesse la sola funzione di stimolare l’immaginazione attiva.

15 Frances A. Yates L’arte della memoria. Milano: Adelphi, 1995, tratta dal punto di vista storico e filosofico le tecniche mnemoniche del monto antico, che si basavano su immagini e luoghi per la conservazione e la rielaborazione delle informazioni, attraverso procedimenti che comportavano una revisione e un aggiornamento continuo dei materiali: dunque una memoria dinamica, non statica, in cui creatività e immaginazione giocavano un ruolo importante.

16 Adéla Navarová, Riflesso della cultura nei proverbi italiani, francesi e cechi, Tesi Magistrale, Università Palacký di Olomouc, Facoltà di Lettere, Dipartimento di studi romanzi, 2024, rileva un’alta incidenza di proverbi equivalenti, quando non perfettamente identici, sia tra paesi di lingua neolatina come l’Italia e la Francia, sia nel repertorio di lingua slava. Solo una parte minoritaria del repertorio si può effettivamente ascrivere alle specificità culturali.

17 Si veda a questo proposito Federico Berti, La sapienza dei servi, in: Memoria. L’arte delle arti, Bologna, Streetlib, 2022. La combinatoria degli elementi simbolici serve all’analisi contestuale dei mondi possibili, partendo da una situazione contingente. Tutte le pratiche mantiche diffuse tuttora a livello popolare, ricadono nella superstizione quando viene postulata una relazione di causa ed effetto fra l’atto rituale della sintesi combinatoria – sia essa la casuale pesca di una carta da un mazzo, il riconoscimento di forme significanti nelle gocce d’olio che galleggiano in uan tazza d’acqua, siano i sogni ricorrenti, o siano i movimenti di un pendolino che oscilla sulla testa del consultante – e gli accadimenti reali. Quando non sipostuli tale relazione, non vi è superstizione ma semplice gioco combinatorio che stimola l’analisi (umana, dunque fallibile) dei futuri possibili attraverso il pensiero modellizzato dei repertori sapienziali. A questo servivano i proverbi, prima che l’approccio formale di taluni folkloristi li dissociasse dalla loro funzione cognitiva, più che performativa.

18 Si rimanda all’edizione critica dell’I Ching a cura di Carl Gustav Jung Roma, Astrolabio, 1950. La combinatoria dei 64 esagrammi tramite il lancio rituale di monete o bastoncini, non serve a predire il futuro, ma a stimolare un dialogo meditativo con l’inconscio, favorendo il potenziamento dell’immaginazione attiva. Ogni esagramma è una configurazione simbolica che aiuta a interpretare le proprie dinamiche interiori. Lo stesso avviene in tutte le pratiche divinatorie, dove non siano investite di una presunta relazione causale tra l’atto rituale e lo sviluppo dei futuri possibili, la combinatori adegli elementi agisce in modo positivo sull’intelletto umano.


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