La (presunta) natura ‘multicomponenziale’ della memoria.

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La (presunta) natura
multicomponenziale
della memoria

Nota bibliografica
di Federico Berti

E’ una di quelle tesi che ormai si danno per scontate, che i nostri ricordi siano il risultato di sistemi differenti di memoria a breve e lungo termine che interagiscono tra loro. La psicologia cognitiva e le neuroscienze a partire dal Novecento hanno iniziato a parlare in modo esplicito di memoria semantica, visiva, procedurale, episodica, autobiografica, per indicare i diversi processi che avvengono nella nostra mente nel conservare e richiamare i ricordi. Endel Tulving parlò per la prima volta negli anni ’70 della memoria episodica, quella che si riferisce all’esperienza sensoriale, distinguendola dalla cosiddetta memoria semantica cui competono conoscenze più astratte, come idee, concetti, valori e simboli. Ulric Neisser parlò a sua volta di memoria autobiografica, intesa come un’attività di reminiscenza concentrata sul sé, che consente di rievocare nel dettaglio momenti vissuti dal soggetto pensante. Shank-Abelson parlarono nel ’77 di memoria procedurale, intesa come la capacità di rievocare dei processi specifici, dalla realizzazione di compiti più o meno complessi alle regole delle ‘buone maniere’, queste procedure verrebbero col tempo assimilate e assecondate in modo implicito. Meacham-Singer parlarono di memoria prospettica intesa come la capacità di ricordare progetti, propositi, intenzioni, una sorta di agenda setting che guarda al futuro e non al passato. La suddivisione in categorie non finisce qui naturalmente, con la teoria delle attitudini personali si parla anche di memoria visiva, musicale, gestuale, prossemica, tattile, olfattiva e così via, come se ciascuna di queste memorie potesse aver sede in un luogo diverso del nostro corpo e seguisse regole proprie, interconnesse ma indipendenti dalle altre.

Tutte queste distinzioni hanno in comune una caratteristica, quella di essere focalizzate sul soggetto pensante, ovvero sull’individuo. Sono teorie sostanzialmente quantitative e competitive che si pongono il problema di ottimizzare le strategie di memorizzazione per migliorare le prestazioni nell’apprendimento e per questo motivo, rientrano nei corsi di formazione per docenti nei vari livelli del percorso scolastico. Ma soprattutto, la sperimentazione su questi temi ha goduto di un particolare impulso nella ricerca motivazionale per il marketing e la propaganda politica, dove si pone il problema di assecondare i sistemi procedurali per potersi ‘introdurre’ nella memoria di un numero più vasto possibile di potenziali clienti, elettori, collaboratori. Una forma più o meno velata, più o meno ratificata e istituzionalizzata, di manipolazione delle coscienze. In altre parole, la distinzione fra le varie procedure è funzionale a un’indagine che potremmo definire utilitaristica, di intervento sulle memorie per potenziare la memoria migliorando nella prestazione. In realtà queste procedure non sono distinguibili tra loro, non vengono ‘allocate’ in luoghi diversi del nostro corpo ma interessano la persona nel suo complesso e acquistano un senso nel momento in cui vengono condivise con altre persone, altrimenti non servono a niente. Posso ricordarmi ad esempio la procedura corretta del galateo, ma per metterla in pratica ho bisogno di un contesto sociale in cui queste norme abbiano un senso. In modo simile posso memorizzare un programma d’esame, ma se poi non metto in pratica quello che ho studiato finisco prima o poi per dimenticarlo. Che la messa in pratica avvenga in relazione ad altri esseri umani, o anche solo all’ambiente naturale in cui il soggetto vive, è sempre un rapporto fra noi e qualcosa che è fuori di noi a giustificare qualsiasi atto di memorizzazione, il quale coinvolge contemporaneamente più livelli e pone in atto le diverse procedure in modo talmente organico e integrato da non renderle distinguibili se non in una prospettiva del tutto teorica.

Poniamo di voler memorizzare una sequenza di azioni. Avremo bisogno di un’esperienza ‘sensoriale’, dovremo concettualizzare dei principi, categorizzare delle idee, potremmo aver bisogno di una memoria visiva che consenta di leggere e ricordare un manuale d’istruzioni, di una memoria acustica per tenere a mente la voce di un insegnamento orale, una memoria semantica in grado di decodificare eventuali elementi gestuali, segnali di prossimità, schemi di movimento e così via. Le varie procedure sono totalmente integrate le une alle altre e portano acqua allo stesso mulino, quello della nostra persona intesa nella sua totalità. Non possiamo intervenire sopra la memoria sensoriale senza influire contemporaneamente sulla memoria esperienziale, non possiamo relazionarci a uno stimolo olfattivo senza sollecitare gli altri sensi, per i quali anche un’assenza di stimolo verrebbe comunque incorporata in un’eventuale istantanea di memoria e interpretata come portatrice di significato. Come dire che non possiamo svellere un ciuffo d’erba senza tirar via anche un po’ di terra. E’ in questo senso che le teorie sulla multicomponenzialità della memoria lasciano il tempo che trovano. Sono distinzioni che hanno un senso nell’ottica quantitativa e individualistica del potenziamento, del miglioramento della prestazione, ma portano con sé tutti i problemi che questo approccio alla memoria comportano. In primo luogo l’ansia da prestazione, e a seguire tutti gli altri effetti secondari che avevamo rilevato parlando dell’abuso della memoria artificiale.

Il problema fondamentale di queste teorie è che spiegano dei meccanismi parziali ma non insegnano come integrarli tra loro. Si interessano dell’aspetto tecnologico, non di quello artistico. Trattano la memoria come uno strumento, non come un soggetto. Per questo motivo le teorie sull’apprendimento elaborate dalle neuroscienze non stanno ottenendo i risultati attesi quando vennero elaborate, nel senso che non riescono a spostare l’attenzione del soggetto dallo studio come responsabilità, ovvero come una pratica orientata alla prestazione e alla competizione con altri soggetti, per ottenere un avanzamento di categoria, una borsa di studio, una posizione professionale soddisfacente, e non come piacere di conoscere, imparare, soddisfare una curiosità, colmare un vuoto di conoscenza, coltivare sé stessi, imparare a vivere in pace con gli altri. L’apprendimento quantitativo, individualistico e competitivo, produce tanti individui in conflitto fra loro per il conseguimento di un potere, di un prestigio sociale, che riduce il sapere a un semplice mezzo per raggiungere degli obiettivi personali, a danno di qualcun altro. E’ un approccio alla memoria orientato all’avere, non all’essere. Non porta all’amore per la conoscenza.

L’arte della memoria, così come veniva praticata al tempo di Omero, o più tardi nelle scuole pitagoriche, si poneva obiettivi differenti. In primo luogo una partecipazione allargata, collaborativa e non competitiva, orientata alla coltivazione dell’individuo come parte di una comunità, non come monade sociale. E’ una disciplina che prevede una dimensione collettiva e un livello avanzato, quello del docente, che non distingue tra l’arte e la scienza, considerandole come parte di uno stesso processo cognitivo nel quale tutte le arti s’incontrano e perseguono un solo obiettivo, l’amore per la conoscenza orientato al bene comune. Quell’arte che ha permesso a contadini analfabeti di memorizzare canti, versi poetici, melodie, segni, figurazioni, condividendoli nell’atto partecipativo del rituale socializzante. In quelle discipline tutte le ‘componenti’ della memoria evidenziate dalla psicologia cognitiva e dalle neuroscienze a partire dal XX secolo, trovano una sintesi perfetta, non sono distinguibili le une dalle altre. Questo approccio alla memoria non produce ansia da prestazione e non è motivo di competizione, poiché ogni soggetto pensante vede sé stesso come parte di uno stesso cammino, cui partecipa l’intera collettività, quello della strada verso il progresso civile e l’evoluzione della conoscenza.


Federico Berti,
Memoria. L’arte delle arti


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