Il terzo occhio fra mito e realtà. Memoria. immaginazione, anticipazione.

Per sottrarsi al condizionamento della memoria, bisogna esercitare l’arte della memoria

Il terzo occhio
fra mito e realtà

Memoria, immaginazione
e anticipazione

Articolo di Federico Berti

Nel 1956 in Inghilterra esce un libro dal titolo Il terzo occhio a nome del sedicente figlio di un ministro del Dalai Lama in Tibet, un certo Tuesday Lobsang Rampa. E’ un falso spudorato e conclamato, in realtà l’autore si chiama Cyril Henry Hoskin, classe 1910, nativo del Devonshire, figlio di un idraulico e non conosce nemmeno una parola in tibetano. Le presunte memorie di Lobsang Rampa diventano un caso letterario anche quando il falso viene implacabilmente smascherato da chi dell’Oriente s’intende davvero ma questo non stronca l’opera, che al contrario continua a vendere e anzi, incrementa il proprio successo. Alla stroncatura della critica Hoskin risponde con un sequel se possibile più spudorato, nel quale racconta l’odissea percorsa dalla sua anima tra Cina, Giappone, Unione Sovietica e Polonia, passando attraverso la Terra dei morti e incorporandosi nelle spoglie mortali dell’inglese in cui abita al momento in cui scrive. Non un romanzo di fantasia, ma una testimonianza spacciata per veritiera. Gli esperti di storia e cultura tibetana considerano il testo dello pseudo Rampa una dimostrazione della disinvolta mancanza di scrupoli nell’industria editoriale occidentale. Inutile dire che il libro è tuttora in vendita, rimandiamo alla recensione di Massimo Introvigne, che si può leggere qui.

Ho voluto parlare dello scandalo Lobsang Rampa per introdurre un tema delicato, quello della mistificazione e dell’invenzione deliberata nel complesso mondo delle nuove religioni, quando si parla del cosiddetto ‘terzo occhio’. E’ sufficiente digitare la chiave in un motore di ricerca per ottenere risultati che vanno dalla sollecitazione della cosiddetta ghiandola pineale al conseguimento di una visionaria chiaroveggenza, dalla previsione del futuro all’intuizione mistica passando attraverso favole di antichi astronauti e civiltà perdute. Mancano solo Atlantide e i Rettiliani. Il terzo occhio viene descritto in queste fonti come un organo invisibile situato fra le due sopracciglia, in mezzo alla fronte, la meditazione consentirebbe di ‘attivarlo’ prendendo consapevolezza di realtà superiori, comunicando addirittura con Dio. A questa viva immaginazione non fa da contraltare una letteratura propriamente scientifica, tutto rimane sospeso nella promulgazione di varie dottrine in cui si passa dall’Antico Egitto ai Chakra, dalla Kabbalah al Sufismo, dall’Om all’Amen in un batter di ciglio, con bibliografie ridotte e per lo più autoreferenziali.


Il terzo occhio viene descritto in queste fonti come un organo invisibile situato fra le due sopracciglia, in mezzo alla fronte, la meditazione consentirebbe di ‘attivarlo’ prendendo consapevolezza di realtà superiori, comunicando addirittura con Dio.


Sappiamo però che di un mitico occhio in mezzo alla fronte si parla davvero nelle Upanisad, il fatidico sesto Chakra detto Ajna associato all’immaginazione e all’intuizione. L’accostamento proposto da alcuni all’occhio di Ra egizio o con quello della Provvidenza cristiano è improprio, essendo quest’ultimo una rappresentazione dell’occhio divino che guarda noi, non viceversa. Molto più interessante il collegamento con l’Ars Notoria di Apollonio di cui ho parlato più diffusamente in Memoria. L’arte delle arti, che aveva proposto una disciplina di meditazione in cui combinava il pitagorismo alla religione dei brahmini, la filosofia allo yoga. Una meditazione sopra le immagini che nascono dentro di noi e un modo per intervenirvi sopra in modo consapevole, un’arte della scrittura interiore. E’ questa la linea di continuità che storicamente lega il mito orientale del terzo occhio, nel quale visioni illuminanti e intuizioni mistiche vengono prodotte da un misterioso luogo dell’anima e possono affiorare alla coscienza tramite la meditazione, alla filosofia occidentale e all’ars reminiscendi che su quelle visioni interviene. Dobbiamo tuttavia porci una domanda, cui non si è data finora una risposta univoca: la metafora dell’occhio va interpretata in un senso puramente didattico, o possiamo intenderla in senso letterale? Possediamo davvero un terzo occhio in mezzo alla fronte, che consente di vedere l’invisibile?

Per rispondere a questa domanda, ricorreremo all’esempio del camionista distratto proposto da David Armstrong, che può aiutarci a comprendere il rapporto fra immaginazione sensoriale e attenzione selettiva. La mente del camionista è lontana dalla strada, può ragionare su problemi filosofici senza distogliere lo sguardo e mantenendo un contatto visivo con l’esperienza della guida. Può ragionare sul percorso da compiere per raggiungere una destinazione in particolare, vedrà apparire davanti ai suoi occhi le immagini dei punti di riferimento nella sua mappa mentale dei luoghi, un certo albero o un certo motel, ma queste immagini non oscureranno i dati trasmessi fisicamente dal senso della vista, se un gatto gli dovesse attraversare la strada all’improvviso non esiterebbe a premere il piede sul freno e in quel preciso momento tutti i suoi castelli di carte mentali svanirebbero nel nulla, poiché l’attenzione sarebbe nuovamente concentrata sulla strada. Non sono dunque dati propriamente sensoriali quelli che l’uomo alla guida del veicolo ha l’impressione di vedere mentre pensa, ma solo umbratili figurazioni, non sono idee quelle su cui lavora, ma ombre delle idee. Possiamo sperimentarlo da soli immaginando di trovarci nella piazza centrale della nostra città e doverci incamminare in direzione della stazione. Vedremo apparire immagini fugaci e ‘trasparenti’ che si frappongono come un velo sottile tra noi e la realtà. Sono le immagini di memoria elaborate nel cervello, che danno a noi l’impressione di possedere un terzo occhio in mezzo alla fronte.

La metafora dell’occhio è tuttavia impropria, poiché se da un lato riflette il primato della vista sugli altri sensi, dall’altro le sensazioni che richiama alla mente attraverso l’attenzione focalizzata, dunque nell’atto consapevole della meditazione, possono includere suoni, sapori, odori, tutti i dati registrati dai cinque sensi intervengono nell’elaborazione di un’immagine di memoria. Pensiamo all’esperienza del fuoco. La prima volta che avviciniamo la nostra mano alla fiamma, inconsapevoli delle conseguenze, sperimentiamo senza dubbio il dolore immediato e forse le conseguenze dell’ustione, ma la volta successiva che vedremo il fuoco eviteremo di ripetere lo stesso errore, memori dell’esperienza precedente. Noi ‘sentiremo’ nuovamente uno stimolo ridotto, ma esemplificativo, dello stesso dolore, e lo useremo in modo cosciente per compiere una scelta, quella di non avvicinare nuovamente la mano alla fiamma. Non è dunque solo un occhio, ma un teatro nel quale si riattivano le reti neuronali che hanno registrato ed elaborato le esperienze passate, per farle rivivere al soggetto pensante guidandolo nelle sue azioni reali. Ricordando il dolore provato al primo contatto della mano con il fuoco, la mente prevede le conseguenze di un’eventuale azione futura, cosa accadrebbe cioè se tornasse a ripetere lo stesso errore, quest’anticipazione di un futuro possibile orienta la sua scelta di tenersi lontano dalla fiamma. Il concetto di anticipazione è quanto mai lontano dall’idea esoterica della chiaroveggenza, ma rientra a pieno titolo nella visione baconiana della scienza che si propone di anticipare la natura, indagandone il comportamento.

Le considerazioni fin qui fatte, portano con sé un problema. Le immagini di memoria non provengono da un deus ex machina, ma sono un prodotto della nostra mente e come tali, dobbiamo prendere atto della loro fallibilità. La dottrina religiosa del terzo occhio parla di illuminazioni, epifanie, intuizioni mistiche provenienti dalle nostre immagini di memoria, che tuttavia essendo un’elaborazione personale potrebbero rivelarsi a un più attento esame assai meno illuminanti di quanto non saremmo disposti ad ammettere. Giordano Bruno a questo proposito non ha dubbi, si deve imparare a distinguere con chiarezza l’idea dalla sua ombra che si riflette nella nostra mente, la sua immagine di memoria, così come l’uomo del mito platonico impara a distinguere la realtà dalle ombre che questa produce sul muro della caverna. La religione offre a questo scopo uno strumento di controllo sociale che passa attraverso le istituzioni preposte all’amministrazione del culto, affida cioè il controllo sul senso di realtà da attribuire a queste immagini a una classe di ministri cui spetta il compito di stabilire se una data visione sia da intendersi come ispirata dal dio o da un demone: la medesima istituzione, può giudicare le visioni di una Giovanna d’Arco indotte da Satana, e pochi decenni dopo l’esecuzione della sventurata cambiare idea, santificando e martirizzando la vittima del suo precedente verdetto. La filosofia attribuisce invece questo compito al soggetto pensante, cui spetta anche la responsabilità di scegliersi i maestri e applicarne o meno gli insegnamenti, a sua esclusiva discrezione. Le istituzioni religiose cercano adepti, offrono verità di fede, la comunità scientifica forma menti libere, alle quali è in grado di offrire soltanto la capacità di perfezionare le domande cui cercare delle risposte mai definitive.


Federico Berti,
Memoria, l’arte delle arti


In conclusione diremo che il mito del terzo occhio affonda le sue radici in quello che Giulio Camillo Delminio chiamava il teatro interiore della memoria, sul quale è possibile meditare attraverso l’ars reminiscendi. Le immagini di memoria, nelle quali trovano spazio le esperienze di tutti e cinque i sensi, vengono prodotte in continuazione dalla nostra mente, senza raggiungere nella maggior parte dei casi la soglia dell’attenzione. Soffermando e concentrando la nostra attenzione su queste noi possiamo elaborarle, riflettervi sopra, per dare una risposta ad alcune tra le nostre domande, ma non dobbiamo mai confondere queste immagini con la realtà o corriamo il rischio di impazzire. Le religioni offrono strutture sociali in grado di amministrare queste immagini di memoria, condizionandole dall’esterno attraverso la manipolazione dottrinale e dogmatica, la filosofia offre strumenti di indagine che non danno certezze ma garantiscono l’indipendenza. Quando il mistico parla di ‘attivare’ il terzo occhio per raggiungere un livello superiore di conoscenza, si riferisce in realtà alla pratica di meditare su queste immagini di memoria, calarsi nel proprio teatro interiore, prenderne coscienza per potervi riflettere sopra in modo consapevole. Porsi in ascolto di noi stessi vuol dire questo. Far caso a queste immagini quando si presentano all’occhio interiore prendendole per quello che sono, impressioni lasciate dalla realtà sul nostro sistema nervoso. Sono utili alla previsione del futuro? Possono esserlo nella misura in cui suscitano in noi l’arma più potente di cui la nostra mente disponga per governare il corpo in cui abita, l’arte di porsi delle domande.

Bibliografia:


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Lao Tze, Tao Te Ching
Bibliografia, Risorse sul Tarocchino Bolognese

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