Makeda. Un villaggio in Abissinia. Libro, eBook.

 
 
 

Makeda

Odissea in Etiopia, XIII

 

 

Un villaggio in Abissinia

L’italiano risaliva il sentiero sollevando lo sguardo sopra un vasto orizzonte segnato dal ricamo delle alture pietrose, la figlia di Aksum e le altre donne lo precedevano portando l’acqua nei vasi chi a spalla, chi a mano, chi in testa; lungo il cammino varie compagnie di pellegrini si unirono a loro cantando e ballando con letizia. L’avvocato Potier gli aveva parlato di una città santa, descrivendo con cura undici chiese scavate nella roccia e il mistero delle potenti croci che vi si custodivano; il suo contatto sul posto era con uno di quei religiosi, ma non avrebbe potuto andarvi senza una guida, per giunta vestito solo con un fazzoletto strappato dal mantello di una sposa. Giunta nei pressi del villaggio, la piccola benefattrice si voltò a guardarlo negli occhi, lui ne comprese il motivo senza bisogno di spiegazioni: Gudit non è più una bambina, meglio non farsi vedere insieme. Porse il bilancino d’acqua a una delle portatrici, chinò il busto in avanti con una mano sul petto lasciando che proseguissero da sole. Sedette poi s’una grossa radice guardando con interesse donne e uomini d’ogni età che passavano di tanto in tanto: nel corso della giornata sarebbero accorsi a migliaia da ogni parte della regione, come sciami d’api a commemorare il battesimo del figliolo celeste sul fiume Giordano.

Nessuno badava a lui. Era avvolto in una tunica di vento, invisibile agli occhi delle persone; s’incamminò da solo tra le capanne trovando la ragazza che l’aveva raccolto al torrente, accompagnata dai familiari nell’abito cerimoniale. Le abitazioni erano modeste ma pulite e ordinate, l’abbigliamento dignitoso, lo spazio comune ben organizzato; la Gerusalemme d’Etiopia sorgeva più avanti lungo il cammino verso la sommità della montagna s’un luogo sacro alla cristianità fin dai tempi dell’Imperatore Costantino, senza dubbio quel popolo vantava più storia alle spalle di quanta non ne avesse la giovane e irresponsabile bandiera italiana. Questo pensò il Musolesi vedendo avvicinarsi la famiglia al completo, quando giunsero a pochi passi da lui s’inginocchiò portando la fronte in terra, lasciò cadere le braccia sul fianco e levando il busto supplicò nella propria lingua: “Vi prego, ho bisogno d’aiuto. Devo incontrare un sacerdote. Il cielo possa renderne merito a voi e alla vostra discendenza”; così dicendo restò immobile per qualche momento, lo sguardo rivolto in terra.

 

L’uomo e la donna si guardarono tra loro, non capivano le sue parole ma notarono l’abbigliamento che portava, ne riconobbero il ricamo e sommariamente ricostruirono la provenienza. Makeda, questo il nome della donna, indicò la sommità del monte verso cui la folla convergeva, con un cenno del capo esortò il marito a fidarsi dello straniero perché l’istinto le diceva che quell’uomo non era un assassino. Aksum pose un dito sotto il mento di Spartaco, sollevandolo in modo che potessero guardarsi negli occhi e invitandolo con una leggera pressione verso l’alto a levarsi in piedi. La montagna poteva aspettare, dietro ogni mendicante può nascondersi il volto del divino: ogni volta che vestirai un ignudo, nutrirai un affamato, curerai un ammalato, sarà come se stessi facendo queste cose a Dio stesso, così è scritto. Con questi pensieri padre, madre, figlia si volsero indietro e tornarono dentro la capanna, seguiti da coloro che avevano assistito alla supplica. L’ospite sedette alla destra del padre.

Gudit versò dell’acqua sulle mani del nuovo arrivato, condivisero frutta e formaggio nonostante il digiuno rituale, Makeda parlò a un ragazzo vestito di bianco seduto vicino all’ingresso del tukul, recante in mano un bastone sottile col fiore della vita intagliato nell’impugnatura. Pronunciò alcune parole nell’idioma locale, poi tacque e restò in attesa, il ragazzo prese dunque la parola, disse in italiano: “La moglie di Aksum vuole sapere chi sei, da dove vieni, come ti procurasti quelle ferite e chi ti diede l’abito che indossi”. Spartaco rispose: “M’arruolai volontario nella campagna d’Africa nella prospettiva di unirmi alla resistenza etiope, approfittai della confusione sul campo di Adua per nascondermi, prendendo poi la via delle montagne; dopo molte disavventure mi raccolse in fin di vita una sapiente nei pressi del Lago Tana, restai con lei il tempo necessario a rimettermi in salute e non appena possibile m’incamminai verso la città santa per incontrare un monaco, un tale Scioà. Non so altro di lui, se non che suona il grande tamburo. Ora non desidero altro che tornare a casa, non per viltà ma perché ho capito che la battaglia più importante è in patria: bisogna lottare per una soluzione politica al conflitto, per riconquistare dignità a una classe politica vigliacca e prepotente, che ha venduto l’anima a un clero corrotto dalla nuova aristocrazia borghese. Perciò intendo ritornare in Italia”.

 
 

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Il giovane vestito di bianco levò lo sguardo agli occhi di Makeda, moglie di Aksum e madre di Gudit, traducendo le parole del fuggiasco. Quando ebbe finito, la bambina venne ripresa bonariamente dai genitori per non aver condotto subito l’uomo al villaggio, come si conveniva. Spartaco senza aspettare la traduzione intervenne, in difesa della bambina: “Non avrei potuto accettare un suo invito a seguirla. Se fossi comparso al suo fianco avrei potuto suscitare sdegno nella famiglia, o macchiarne l’onore: l’uomo è spesso incline al sospetto”. Replicò allora il padre nella propria lingua, pure lui senza aspettare la mediazione del ragazzo, “L’ossessione che avete per la nudità e il piacere della carne, non appartiene ai figli di Sheba: qui nessuno giacerebbe mai con una donna che non porti il segno della maturità, l’orrore della violenza contro chi non può difendersi è indegno d’un uomo, non fa onore a un guerriero. Solo per le genti d’Europa l’inutile strage e l’abuso del corpo femminile, non sembrano essere considerati un delitto. In ogni caso rispetteremo la tua volontà e ti condurremo alla città santa, da colui che suona il grande tamburo. Se il cielo t’ha inviato a noi, è nostro compito assecondarne il disegno”. Spartaco aspettò che il ragazzo vestito di bianco finisse di tradurre e si rallegrò della promessa.

(Continua)

Odissea in Etiopia, episodio XIV

Timkat. La danza dei pellegrini

 
 
 


 
 
 

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