Analfabetismo funzionale, decadimento cognitivo e mnemopoiesi

In queste note vorrei parlare di un fenomeno che la ricerca sta documentando con crescente preoccupazione, l’analfabetismo dilagante inteso come una forma di declino cognitivo funzionale che se trascurato può degenerare in forme di ideazione disturbata, culminante in una regressione dell’intelligenza personale e collettiva. Un fenomeno che tendiamo a percepire più facilmente negli altri che in noi stessi, poiché il nostro cervello può contare su capacità compensatorie che riescono spesso a mascherare lo stato reale delle nostre facoltà intellettive: quando alcune aree iniziano a perdere efficienza, altre possono temporaneamente supplire ritardando il rilevamento del disturbo. Questa plasticità della mente però riesce a nascondere il deterioramento solo finché questo non supera una soglia critica, quando i sintomi cognitivi diventano clinicamente evidenti, talvolta il danno strutturale è già avanzato.
Si parla di cognitive offloading, come di una pigrizia mentale che porta a scaricare dalla nostra mente le responsabilità di evoluzione costante, una tendenza alla passività che caratterizza sempre più la nostra vita quotidiana. Per decenni, la neurologia ha distinto nettamente tra decadimento cognitivo organico – causato da lesioni fisiche – e funzionale, dove la memoria vacilla in assenza di danni strutturali evidenti, in risposta a traumi psicologici o pressione psicologica. Da un ventennio è tuttavia sempre più evidente che un declino funzionale, se protratto nel tempo, trascurato, assecondato, può degenerare a sua volta in decadimento organico. L’isolamento sociale, l’alienazione, la mancanza di stimoli culturali e l’incapacità di affrontare compiti impegnativi, sono fonti di una crescente ansia da prestazione e senso di inadeguatezza; la ricerca degli ultimi anni ha rivelato un legame sorprendente tra stili di vita culturalmente passivi, solitudine prolungata, mancanza di relazioni intellettualmente stimolanti, e lo stato dell’infiammazione cronica nel nostro sistema nervoso: questa condizione può accelerare o favorire il declino cognitivo organico, con un aumento sensibile del rischio di sviluppare forme di demenza anche in giovane età.
A questo punto entra in gioco la cosiddetta riserva cognitiva, un concetto fondamentale per comprendere sia il rischio, sia la necessità di una prevenzione adeguata: introdotto inizialmente negli studi sull’invecchiamento, questo concetto si riferisce alla capacità del cervello di mantenere le proprie funzioni attive nonostante l’accumulo di danni strutturali, organici. Persone che in vita non avevano mostrato alcun segno di demenza, all’esame post-mortem presentavano in modo significativo i segni patologici dell’Alzheimer. Come era possibile? Un’ampia riserva cognitiva aveva permesso loro di compensare il danno, aumentando la densità e la ridondanza dei collegamenti fra neuroni, l’efficienza delle reti, la disposizione di percorsi alternativi quando quelli primari si trovavano compromessi. Ecco perché il cognitive offloading può essere tanto pericoloso non solo per la salute individuale ma anche per la sopravvivenza stessa della società: i suoi effetti rimangono sotto traccia per molto tempo e quando si manifestano sotto forma di sintomi percepibili, la progressione è già in atto.
Non è una scoperta recente, già nel Fedro Platone metteva in bocca a Socrate una critica all’invenzione della scrittura, sostenendo che scaricare la responsabilità (individuale e collettiva) della memorizzazione, affidandosi a caratteri esterni, avrebbe indebolito la memoria degli uomini, i quali avrebbero smesso di ricostruire il ricordo dall’interno. Duemila anni dopo, la psicologia cognitiva ha ripreso questo concetto riferendosi all’uso di supporti esterni – appunti, calendari, dispositivi digitali – per ridurre il carico cognitivo interno. Di per sé, il cognitive offloading non è patologico, non quando lo scarico serve a liberare energie da reimpiegare in nuove sfide cognitive; il problema è quando inibisce la tensione stessa verso la conoscenza, quell’eroico furore di cui parlava Giordano Bruno e che costituisce il motore primo dell’evoluzione culturale umana.
Il declino cognitivo si manifesta inizialmente con sintomi leggeri, che attribuiamo spesso a cause contingenti: una crescente difficoltà a mantenere l’attenzione su temi complessi, una preferenza marcata per contenuti brevi e frammentati, una ridotta capacità di seguire argomentazioni molto articolate, una tendenza a rifugiarsi in schemi di pensiero preconfezionati, una memoria sempre più dipendente da supporti esterni. Invano motiviamo questi sintomi con la mancanza di tempo, la frenesia della vita quotidiana e così via. Si viene a sviluppare in noi sulle prime un analfabetismo di tipo funzionale (ovvero sappiamo leggere, ma non riusciamo più a capire quello che leggiamo) che può degenerare in decadimento organico. Il guaio è che la persona in questa fase del declino non si sente cognitivamente compromessa, quindi non avverte il problema e di conseguenza non vi pone riparo per tempo.
Non è esagerato affermare che viviamo in un ambiente cognitivamente tossico. Non sempre per malevolenza deliberata, ma per una convergenza di fattori economici, tecnologici e sociali che scoraggiano sistematicamente l’esercizio cognitivo profondo. Circa il 28% della popolazione tra 16 e 65 anni sviluppa forme di analfabetismo funzionale. Non parliamo di persone senza istruzione: molti hanno diplomi, lauree, posizioni di responsabilità, ma le loro facoltà intellettive sono in parte compromesse. È evidente come tutto questo comporti rischi gravosi, quando sono le masse a esprimere dei rappresentanti altrettanto disfunzionali quanto loro, i quali possono compiere scelte pericolose mettendo a rischio la sopravvivenza stessa dell’umanità.
Quanto detto finora non deve indurre a un pericoloso vittimismo cosmico. In realtà la mente umana mantiene una capacità di rinnovarsi per tutta la vita, nuovi neuroni continuano a nascere anche in età adulta: si può stimolare la produzione di nuove connessioni, la riorganizzazione e il rafforzamento dei circuiti neurali anche negli anziani, ma l’efficacia di qualsiasi provvedimento diminuisce col progredire del danno strutturale. La finestra temporale ottimale per un intervento preventivo è dunque prima che il declino diventi evidente, prima cioè che si manifestino i sintomi. Su questo piano di prevenzione interviene l’esercizio dell’ars reminiscendi, ovvero quella che anticamente si definiva arte della memoria. Le pratiche di visualizzazione spaziale dettagliata (i palazzi della memoria), le associazioni multisensoriali, l’organizzazione gerarchica delle informazioni, la pratica deliberata e la ripetizione periodica: tutte queste attività attivano simultaneamente tutte le parti che confluiscono nella nostra capacità di apprendere, ricordare e trasmettere.
L’aspetto forse oggi più trascurato nell’ars memoriae, quello della dimensione sociale e collaborativa, è senz’altro determinante al contenimento di questo dilagante fenomeno di analfabetismo funzionale, cui stiamo assistendo impotenti. Le conversazioni approfondite, il confronto dialogico, la costruzione collettiva di significati, sono tutti esercizi che vanno ben oltre la coltivazione del proprio sé; questa forma di mnemopoiesi, che porta alla creazione consapevole e attiva di memorie condivise, non serve solo a memorizzare meccanicamente dati inerti, ma a costruire architetture del sapere complesso attraverso l’assimilazione volontaria di contenuti culturalmente rilevanti (poesie, prose, meditazioni attraverso le arti, la musica, lo spettacolo) in maniera attiva, con un intento di ricerca interiore, non acquisendo passivamente quel che il sistema ci riversa dentro. Tutte le arti sono arti della memoria, poiché integrano componenti emotive e stimoli che potenziano la codifica delle informazioni.
Un aspetto fondamentale nell’esercizio consapevole della memoria creativa è la lettura profonda e sostenuta, che possa attivare non soltanto le aree preposte alla ricezione del linguaggio ma anche quelle dell’immaginazione e del ragionamento astratto. Questo processo è rafforzato ulteriormente dal dialogo critico, il confronto con una comunità interpretativa; l’apprendimento continuo di nuove competenze – che si tratti di imparare una lingua straniera, uno strumento musicale, un’arte manuale complessa, un repertorio letterario – ma soprattutto la pratica guidata e strutturata attraverso l’ausilio di un conduttore delle attività, possono rendere questi strumenti particolarmente efficaci nella prevenzione del disturbo cognitivo, che nell’arco di una sola generazione può produrre dei risultati sorprendenti anche sul piano della collettività. Un rinascimento culturale, un nuovo umanesimo.
Tuttavia, la prevenzione del declino non si dovrebbe rinviare, come si dice, alle calende: la costruzione della riserva cognitiva dovrebbe iniziare nell’infanzia e proseguire per tutta la vita, sebbene anche chi si avvicini a questa pratica in età più avanzata possa trarne comunque benefici significativi. Gli studi di intervento su soggetti anziani in comunità strutturate mostrano che anche a 70-80 anni il cervello risponde positivamente a queste forme di training intensivo. Coltivare una meditazione attiva di tipo mnemopoietico attraverso le arti sorelle è dunque insieme un atto di prevenzione e di resistenza culturale, che amplia e consolida nei praticanti coinvolti quegli strumenti intellettuali che possono rallentare la progressione del decadimento sia strutturale che funzionale.
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