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L’enigma
dell’architetto

Il Boia dell’Alpe n.12
Thriller italiano
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Nota dell’editore. Dopo aver letto i primi tre capitoli esco in cerca del professore; come al solito lo trovo al bar col suo caffè d’orzo, giornale e buon libro. E’ un bel sabato di primavera, ogni tanto sul pavimento del locale risuonano i tacchi dei ciclisti venuti in arrampicata dalle nebbie della città rossa. Saluto, siedo accanto a lui e manifesto la mia perplessità sulle memorie d’Erminia. Sembra il diario d’una visionaria. Lui sorride attraverso i baffi imbiancati dalle primavere, poi risponde: “Vuol dire che non ti sei accorto di nulla?”. E’ passato al tu, questo mi fa piacere ma non risolve il problema. Evita di sbilanciarsi però assicura che nei primi tre capitoli son già comparsi un morto, un assassino, un’arma e un movente, basta guardare la luna e non la punta del naso. O aver pazienza. “Del resto, ormai sei coinvolto in questa storia più di quanto pensi”. Con uno sguardo pieno di complicità raccoglie le sue cose, lascia libero il posto, infila il cappello e ondeggiando un poco il busto si dirige verso la cassa; mentre lo vedo mettere mano al portafoglio, il pianto isterico d’un bambino al tavolo di fianco attira la mia attenzione, ma ancor più la risposta della madre: “Se non fai il bravo, chiamo subito il boia dell’Alpe!”. Nel sentire queste parole irrigidisco la schiena, mentre l’architetto attraversa la sala ed esce dalla porta a vetri, salutando colla mano. Ho il libro con me nella tasca sinistra dell’impermeabile, lo riprendo e nel tenerlo aperto arriva la giovane cameriera a servirmi un caffè d’orzo. “Te l’offre il Coppola”, dice. Riprendo a leggere, la scrittura è regolare, tratto malfermo.



“Con una mano mi percorre l’addome,
i fianchi, l’inguine, la schiena, poi si
ferma dove il male è più forte, inizia
a segnarmi col dito e mormora a bassa
voce parole che non riesco a distinguere”


Scrivere è una tortura nel luogo freddo e inospitale in cui mi trovo, murata di neve senz’acqua, luce, gas, braccata da una folla di teppisti coi volti coperti da maschere grottesche. Vogliono la mia testa, così dicono. Mi son rifugiata in casa del dottor Ciriaco Salasso, un toscano volgare e antipatico; gli piace anche alzare il gomito, ha una villa sperduta nel bosco vien qui un paio di mesi l’estate in villeggiatura, il luogo è al momento inaccessibile a causa della tormenta, in più la neve di stanotte ha cancellato le impronte per cui sono convinta che non mi troveranno fino a quando il sentiero non tornerà agibile. Mi sento al sicuro, a patto di non accendere un fuoco; durante il giorno gratto un poco la muraglia gelata che mi si para davanti aprendo la finestra, non avrò a morir di sete almeno; stretta nella coperta continuo a scrivere. Non appena possibile, proseguirò oltrepassando il valico per la Toscana, sempre nella speranza di non fare brutti incontri; eviterò i centri abitati fino al basso Mugello, non appena riuscirò a mettermi in contatto con mio marito andremo in un posto lontano e forse un giorno ritroveremo insieme la felicità. In ogni caso però la verità voglio scriverla in queste pagine, affinché il mondo sappia che non sono un’assassina.

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Ero dunque rimasta alla fuga dalla casa del prete in preda alle convulsioni che mi tormentavano l’addome, ho sempre sofferto di calcolosi ma quella notte un po’ il nervosismo, un po’ la situazione, qualcosa dentro di me dev’essersi mosso; dicono sia come le doglie del parto, anche se non ho mai avuto figli e non posso confermarlo. Potrebbero essere tuttavia contrazioni spastiche dovute allo spavento, o le conseguenze del digiuno, ad essere sincera non escludo nemmeno che la bevanda in casa Tortello non fosse proprio salutare. Per camuffarmi il prete non ha saputo darmi di meglio che un saio azzurro da frate, tempo d’attraversare il paese risalendo su per il convento m’affianca un fuoristrada al cui finestrino s’affaccia un volto familiare: “Serve mica un passaggio?”. Veneranda sorride sguaiata, apre la portiera del veicolo, m’aiuta a salire e si stringe a me tenendomi una mano dietro la nuca, incalza l’amichetto al volante. “Asfodelio, dai del gas! Piuttosto mia cara lasciatevelo dire, siete davvero in pessime condizioni!”. Supplico balbettando che mi portino al pronto soccorso, ma l’anziana donna risponde: “Vi sbatterebbero in galera senza pensarci due volte”. Quindi? “Lasciate fare a me!” assicura. Non so se temere più la giustizia umana o la cura di quella vecchia strega. Con una mano mi percorre l’addome, i fianchi, l’inguine, la schiena, poi si ferma dove il male è più forte inizia a segnarmi col dito e mormora a bassa voce parole che non riesco a distinguere, penso diamine qua una supposta di morfina in borsa non l’ha proprio nessuno! Benedizione di lucente stella. Poi senza togliermi la mano dal ventre, assicura che andrà tutto bene. Ho solo bisogno d’un bagno caldo. Dice lei. Il tormento del dolore passerà. Rassegnata mi lascio trasportare nuovamente in casa della vedova, m’aiutano a salir le scale, aprono la porta e subito vanno ad alimentar la stufa con un grosso pezzo di legna, infilandovi al lato rami più sottili per ravvivar la fiamma. L’impianto è collegato a una piccola cisterna d’acqua, in pochi minuti sarà bollente; mette su un pentolino, pesca da alcuni barattoli in cucina, prepara il filtro per un altro infuso. Intanto il pittore si stravacca sulla poltrona accanto a me, ginocchio a cavalcioni del bracciolo arrotola una sigaretta e mi parla con tono spavaldo: “Insomma, ce l’han tutti con voi Erminia” sbotta, ridendo. “Come il povero Anacleto, vero?”. Veneranda lo fulmina con uno sguardo. “Non ora, non può rispondere. Prima la riportiamo al mondo”. Ancora lui, quel disgraziato d’un boscaiolo non mi lascia in pace nemmeno da morto, son coinvolta mio malgrado nel susseguirsi di avvenimenti che mi trascinano e ogni tanto sembra quasi di vedere il suo fantasma ballarmi una polca davanti al naso; non posso che restarmene qui sprofondata nel divano, in attesa di quel che sarà. Perché qualcosa dovrà accadere, prima o poi il dolore passa . (Continua a leggere)

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Laureato al Dams di Bologna con una tesi sulla narrazione, Federico Berti è cantantautore, polistrumentista, uomo orchestra, pubblica romanzi, poesie, canzoni. “Il Boia dell’Alpe” è ambientato nel paese di Monghidoro sull’Appennino Bolognese, dove risiede stabilmente dal 2001.

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