La politica cinese e l’arte di governar sé stessi

In Italia quando si parla di Cina si finisce quasi sempre a ricadere nel roboante ritornello del paese autocratico, liberticida, il classico stereotipo della dittatura sanguinaria e così via, se l’Unione Sovietica è in occidente sinonimo di Statin e Gulag, la Cina richiama subito alla amente i carri armati in piazza Tienanmen. In realtà quanto più noi parliamo della Cina, quanto meno dimostriamo di saperne, il nostro sguardo è viziato dal manicheismo di chi trova più prudente demonizzare quel che non comprende, o che odia per partito preso; nel tentativo di tradurre Pechino nei parametri di Washington o Bruxelles, rischiamo solo di confondere le acque. Il nostro problema con la Cina è che non capiamo su cosa si fonda la sua idea di governance: non solo e non tanto sulla legge che limita o sanziona la prevaricazione sociale, ma prima ancora sull‘etica che la previene: da Confucio in poi l’idea di armonia prevale sulla logica del conflitto. E’ davvero complicato tradurre tutto questo nella mentalità europea, il problema è che nel pensiero e nella tradizione cinese il potere non viene considerato un privilegio, ma una responsabilità etica e morale: si governa se si è degni e governare è prima di tutto un impegno nei confronti della società. La logica del Mandato Celeste punisce il tiranno con la perdità di legittimità morale, che risolve in decadenza immediata.
La visione cinese dello Stato è molto simile all’idea platonica o baconiana di una società che pone la sapienza nelle posizioni chiave del potere, un umanesimo pragmatico (laico, filosofico) che mira alla coesione, più che alla redenzione. Questo principio non è scomparso con la Repubblica Popolare, anzi possiamo dire che si è perfettamente accordato con la prospettiva del bene comune perseguita dal Partito Comunista Cinese (PCC), il quale agisce di fatto in continuità con le tradizioni confuciane che hanno tenuto insieme la Cina per millenni. Una concezione che per milioni di cittadini è stata negli ultimi sessant’anni portatrice di stabilità, prevedibilità, portando ingenti masse fuori dall’indigenza e dalla povertà. La verità è che la Cina non ha bisogno di reprimere il dissenso poiché il dissenso in Cina è a livelli trascurabili, il sistema soddisfa le esigenze di un numero sempre più alto di persone. Onestamente, l’idea che un tal mosaico di popoli si possa tenere insieme solo attraverso la repressione e l’uso della violenza è irrealistico.
Il principio fondamentale della politica cinese attuale è piuttosto quello del centralismo democratico: si può dibattere liberamente sia all’interno che all’esterno del Partito, si può partecipare alle assemblee popolari locali, portare visioni diverse, denunciare l’operato dei funzionari corrotti, propore nuove leggi o discutere le proposte di legge sistenti, tutto questo fa parte del normale iter democratico, ma una volta presa una decisione l’unità è assoluta. Il dissenso si consuma nella discussione, non nell’opposizione pubblica. Una forma di partecipazione guidata in cui si punta più all’efficienza del risultato che alla pluralità delle voci. Lo stesso vale per l’Assemblea Nazionale del Popolo (ANP), troppo spesso liquidata come camera di ratifica o timbro di gomma. In realtà, la sua funzione è ben più complessa di quanto non si tenda a pensare: più che un parlamento nel senso occidentale, funziona come un dispositivo di equilibrio e rappresentanza multilivello, dove le decisioni centrali vengono adattate alle esigenze locali creando un canale di comunicazione che parte dalle assemblee di contea e attraverso vari gradi successivi raggiunge i massimi vertici del potere. Dalle assemblee provinciali fino al Comitato Permanente, la logica è sempre la stessa: armonizzare, non polarizzare. L’opposto di quel che avviene da noi, ma non è la forza pubblica a imporlo bensì l’etica del confucianesimo su cui si fonda il sistema e che pervade il modello cinese.
In Occidente intendiamo la democrazia in un senso più procedurale che fattuale: voto, pluralismo, alternanza, passando attraverso la diffamazione, le mortadelle in aula, la bagarre, le provocazioni, quando non l’intimidazione e la violenza di stato, in un sistema caratterizzato da livelli di corruzione altissimi. In Cina la governance si misura dai risultati, se una leadership è in grado di ridurre la povertà migliorando la qualità della vita e garantendo stabilità, allora viene considerata democratica nel senso sostanziale di quel che agisce nell’interesse del popolo. È il pragmatismo di Deng Xiaoping: “Non importa se il gatto sia bianco o nero, ma che sappia catturare i topi”. Questa logica applicata a un modello che mette la collettività sopra l’individuo, l’efficienza sopra la contesa, la stabilità sopra la competizione, rende il sistema cinese tra i più stabili del mondo
Tra l’altro non tutti sanno che il PCC, pur essendo il partito di maggioranza in realtà non supera il 70% nelle assemblee, il rimanente 30% (percentuale non irrilevante) rimane aperto ai partiti di minoranza il cui compito è proporre visioni alternative, analizzare, discutere, aprire nuove prospettive; inoltre il problema etico rimane fondamentale a ogni livello, se in Cina un politico perde la sua credibilità o cade in contraddizione, non viene assolto ma destituito e perseguito secondo la gravità delle sue mancanze, a controllarlo sono proprio le assemblee popolari locali che giudicano l’operato dei funzionari e dei politici. Anche il modo in cui la classe dei governanti è selezionata privilegia il merito, le competenze e i risultati: nelle assemblee di base si viene eletti direttamente dalla cittadinanza, ma ai livelli successivi si sale per obiettivi conseguiti, fiducia maturata e competenze acquisite. Colui che arriva a far parte del Comitato Permanente, o che ragiugne i vertici del Partito, ha governato prima piccoli comuni, poi grandi città, regioni e solo per gradi è salito ai livelli più alti.
Nessuno si sognerebbe di considerarlo un sistema perfetto. Il paese ideale esiste solo nelle favole, ma ridurre il modello cinese a una pura e semplice dittatura è semplicistico e fuorviante, specialmente se a farlo è il mondo globalizzato dell’Occidente, con le sue democrazie procedurali ridotte a mero formalismo, governate da egocentrici narcisisti autoritari, dove si confonde la libertà del popolo con la libertà dei singoli di prevaricarlo, dove si scambiano le opinioni per verità, dove si rivendicano altisonanti diritti civili ma poi non si è nemmeno in grado di garantire quelli primari (abitare, lavorare, istruirsi, curarsi). Un paese governato da Trump, Milei, Meloni, Orban, Le Pen, non può permettersi di giudicare il grado di libertà in qualsiasi altro paese del mondo; il sistema cinese, con tutte le sue ciriticità, non costituisce un’anomalia temporanea ma va considerato un progetto politico in costante divenire da ormai più di sessant’anni, che ha dimostrato di reggersi su una solida base di consenso interno, un’economia forte, una capacità di ammodernarsi e sviluppare piani ambiziosi, dando priorità all’ampliamento della classe media, la bonifica delle sacche di povertà, la costruzione di un’economia sostenibile, eco-compatibile. Comprendere la Cina non vuol dire condividerne le scelte, ma prendere atto della dimensione etica su cui queste si fondano, quel precetto confuciano secondo cui solo chi è in grado di governare sé stesso, può pensare di governare gli altri.
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