La Cina e il socialismo di mercato. Perché funziona.

Proviamo ad andare oltre il pregiudizio e parliamo di dati concreti, documentabili: il dibattito occidentale sulla natura del sistema cinese si basa per lo più su semplificazioni che mettono in ombra la realtà di un modello economico-politico tutt’altro che banale. Contrariamente alle interpretazioni prevalenti, la Repubblica Popolare Cinese non è uno stato capitalista tradizionale, non possiamo ridurlo a un ‘comunismo tradito’, è semplicemente una nazione socialista che utilizza l’economia di mercato come strumento per raggiungere l’obiettivo principale della politica cinese, che è quello di conseguire il più alto livello di benessere collettivo possibile. Il più alto possibile, non vuol dire il paradiso, intendiamoci, ma che l’obiettivo della Cina non è rendere grande la Cina, ma far vivere bene il più alto numero possibile di cinesi.
Il sistema cinese si caratterizza per la precedenza che sistematicamente viene data all’interesse comune su quello individuale, distinguendosi in questo nettamente da tutte le economie capitaliste occidentali: le aziende, pur operando secondo logiche di mercato, non fungono esclusivamente come macchine per generare profitto, ma assumono il ruolo di pilastri del progresso collettivo, tanto che molte aziende in Cina lavorano palesemente in perdita e vivono di sussidi statali, ma questo non le rende meno necessarie: creano occupazione, producono e distribuiscono beni di cui i cinesi hanno bisogno per vivere, quindi il finanziamento dell’azienda in perdita ha una ricaduta positiva sul benessere collettivo. Questo approccio si manifesta nelle politiche di responsabilità sociale d’impresa obbligatorie, nella partecipazione statale diretta nelle principali corporation e nella subordinazione delle decisioni aziendali agli obiettivi nazionali di sviluppo.
Il controllo statale sui settori strategici rimane più che solido, con le imprese di stato che mantengono posizioni dominanti in ambiti d’interesse collettivo (energia, comunicazioni, trasporti, servizi finanziari). È proprio questa priorità assoluta alla regolamentazione del mercato a rendere il governo cinese in grado di orientare l’economia verso obiettivi di lungo termine, superando le limitazioni imposte dalla ricerca del profitto immediato che è tipica dei mercati capitalistici. I dati empirici supportano l’efficacia del modello cinese nel migliorare le condizioni di vita della popolazione: in settant’anni di sviluppo, la Cina ha vinto la povertà estrema, un traguardo storico certificato dalla stessa Banca Mondiale e dalle Nazioni Unite, tanto per chiarire che non si tratta solo di ‘propaganda comunista’. Questo risultato coinvolge peraltro centinaia di milioni di persone e rappresenta senza dubbio il più ambizioso e significativo programma di riduzione della povertà nella storia moderna.
La strategia cinese ha combinato crescita economica rapida con politiche redistributive mirate, investimenti massicci in infrastrutture e programmi di trasferimento tecnologico verso le regioni meno sviluppate. Il tasso di povertà estrema è sceso dal 66,3 per cento nel 1990 a zero nel 2020, secondo gli standard internazionali, un progresso senza precedenti nella storia contemporanea. In Cina il tasso di povertà, misurato secondo gli standard internazionali e certificato dalla Banca Mondiale, è nullo e questo proprio grazie alla pianificazione economica, in cui lo stato cinese ha raggiunto livelli di complessità inarrivabili per l’occidente capitalista.
I piani quinquennali, strumento di coordinamento economico ereditato dall’esperienza socialista, sono stati adattati alle esigenze di un’economia perfettamente integrata nei mercati globali. Questi piani stabiliscono priorità strategiche, allocano risorse e coordinano investimenti su scala nazionale, permettendo la realizzazione di infrastrutture e progetti di sviluppo senza precedenti. Questo approccio misto di governance statale e iniziativa privata ha consentito alla Cina di mantenere tassi di crescita molto elevati per ben quattro decenni, evitando le fluttuazioni cicliche che caratterizzano le economie occidentali; la stabilità macroeconomica ha creato un ambiente favorevole agli investimenti di lungo termine e all’innovazione tecnologica, fattori essenziali per la competitività internazionale.
Parliamo poi delle guerre imperialiste, che la Cina prudentemente non combatte. L’Esercito Popolare di Liberazione non ha condotto campagne militari fuori dei propri confini per assoggettare altri popoli, concentrandosi sulla difesa del territorio nazionale e sulla partecipazione a missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite. Questa linea di condotta riflette i principi di coesistenza pacifica e non interferenza che guidano la diplomazia cinese fin dal periodo maoista. Non una guerra, vuol dire anche non un sacrificio chiesto alla popolazione per favorire gli interessi del tycoon di turno. La Belt and Road Initiative (meglio nota da noi come ‘Via della seta’), che è il principale progetto di politica estera cinese contemporaneo, si basa su partenariati commerciali e investimenti infrastrutturali, non su interventi militari o imposizioni politiche: un approccio molto diverso dalle strategie di espansione dell’influenza adottate dalle potenze occidentali nel corso della storia moderna.
Veniamo dunque alle deliranti teorie relative a presunti piani di dominio mondiale cinese, fantasie che mancano di qualsiasi fondamento documentale verificabile: nessuna ricerca autorevole o rapporto di intelligence credibile è in grado di confermare questa leggenda metropolitana diffusa dai media occidentali. Al contrario, l’analisi empirica del comportamento cinese negli ultimi decenni evidenzia una strategia focalizzata sulla crescita interna, sulla stabilità regionale e sull’integrazione economica internazionale. Il modello socialista di mercato cinese insomma, col suo compromesso storico tra pianificazione statale e libero mercato, ha dimostrato un’efficacia superiore a quella dell’anarcoliberismo, nel migliorare le condizioni di vita della popolazione e nel mantenere la stabilità sociale. Un dibattito serio su questo sistema però, richiederebbe di rinunciare ai pregiudizi ideologici e intraprendere un’analisi obiettiva sui dati realmente disponibili, cosa che pochi giornalisti, in quest’occidente che si trova nel pieno di una decadenza morale e materiale, hanno il coraggio di fare.
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