Timkat. La danza dei pellegrini. Etiopia

 
 
 

Timkat

Odissea in Etiopia XIV

 

La danza dei pellegrini.

La via per la città santa risaliva la montagna percorsa dai pellegrini che accorrevano da ogni parte del Gondar, l’aria di festa risuonava nei piccoli corni che le donne portavano alla bocca e nelle bande giovanili dei ragazzi coi bastoni in mano che si radunavano urlando a gran voce, mentre nuvole di polvere si sollevavano tutt’intorno al loro passaggio; canti pieni entusiasmo salivano al cielo d’Etiopia come un potente inno alla gioia, fu allora che Spartaco s’accorse d’essere in terra consacrata: rimasto in disparte con Gudit e i suoi fratelli, vide unirsi alla processione il clero ortodosso nei suoi mantelli colorati recando in testa cuscini sui quali poggiava un prezioso involto finemente decorato. “Sono le tavole della legge” disse l’africano. Conosceva la leggenda Spartaco, ma preferiva lottare per la giustizia in terra piuttosto che aspettare una vaga ricompensa nell’oltretomba; in ogni caso il racconto del figlio di re Salomone metteva in discussione molte verità, era a suo modo imbarazzante.

La processione attraversò la montagna, stavano entrando nella nuova Gerusalemme del re Lalibela. Il corteo si fermò dinnanzi alle chiese scavate nella roccia, i fedeli vi entravano a piedi scalzi inginocchiandosi per baciare la soglia; nell’interno molti affreschi a rappresentare scene dall’antico e dal nuovo testamento. Un complesso di gallerie si estendeva per diversi chilometri nelle profondità del sottosuolo, pochissime persone sapevano come orientarsi in quel labirinto; mentre osservava le meraviglie dell’architettura l’italiano sentì un rantolo dietro le sue spalle, voltandosi vide una donna in terra e chinato sul suo corpo un monaco sfiorarle il volto con la punta della croce, premerla contro il seno, infilargliela persino sotto la veste; non appena la donna ritornò in sé venne aiutata a levarsi in piedi e condotta in una sala interna.

 

La mia patria è il mondo

Risalirono dalla grande fossa scavata nel terreno e s’accorsero che il numero dei pellegrini continuava ad aumentare; cantarono e ballarono per tutto il giorno fino a notte inoltrata, poi vegliarono in preghiera nei pressi della chiesa. Alle prime luci dell’alba, dopo una solenne cerimonia la comunità cristiana venne intorno alla grande fontana per bagnarsi in memoria del Redentore; ridevano festosi come i bambini che giocano in riva al torrente, anche l’italiano volle rinfrescarsi il volto e i capelli. Aksum non fece in tempo a dissuaderlo che già aveva affondato la testa nella vasca d’acqua benedetta, quando ne riemerse scuotendo i capelli uno strano silenzio era calato intorno, davanti a lui un giovane vestito di bianco lo scrutava severo; la folla si ritirò aprendo un cerchio tra loro, mentre l’africano prendeva con due dita il ciondolo pendente dal collo dello straniero e ruotandolo da un lato, poi dall’altro, lo lasciò infine ricadere sul suo petto.

 

Spartaco restò immobile. Secoli di storia gli passarono davanti, ripensò al massacro nel deserto dal quale era scampato solo un anno prima: s’era spinto fin lassù anche per riscattare la famiglia brutalmente assassinata che aveva visto riflessa in quegli occhi pieni di rancore, la mia patria è il mondo ripeteva tra sé sperando che l’altro potesse leggergli il pensiero. Si chinò allora sull’acqua, ne raccolse un poco nell’incavo delle mani e sotto centinaia di sguardi meravigliati la gettò in alto sopra le loro teste, sollevando il mento allargava le braccia in attesa di riceverla sul volto. Una benedizione. Osservata la scena, gli anziani del clero sollevarono le croci d’argento, le donne tornarono a cantare e i suonatori a percuotere il tamburo.

 
 

Monaco, Lalibela. Etiopia
Monaco, Lalibela. Etiopia

 
 

Il disertore si sentì afferrare da un braccio. Non era né Aksum, né uno dei suoi; riuscì a distinguerne soltanto le spalle, mentre lo trascinava attraverso i corpi danzanti dei cristiani d’Etiopia. Non appena furono abbastanza lontani, l’uomo lasciò la presa mostrandosi in volto. “Che ti sei messo in testa?” chiese, strattonandolo. “Dimmi qual’è il tuo nome, come sei arrivato quassù”. Spartaco intimorito spiegò che desiderava incontrare un religioso di nome Shoà, lo raccomandava a lui un avvocato italiano; sentendo il nome di Igor Potier, l’abissino lo guardò con sospetto, poi disse: “Sono l’uomo che vai cercando, da un po’ osservavo il tuo comportamento. Ora dimmi come posso aiutare la causa di quell’uomo dall’animo tanto nobile”. Lo straniero spiegò d’essersi imbarcato per Massawa nella prospettiva di unirsi alla resistenza in montagna, ma gli eventi lo avevano colto impreparato e dopo molte peregrinazioni s’era convinto che la vera battaglia andasse combattuta in patria. Contro la monarchia, la corruzione, l’arroganza del potere. Shoà rispose: “Non ora, non qui. Ora va’ da chi ti diede questi abiti, tornerai domattina e farò il possibile per aiutarti”; la sagoma di Aksum comparve da lontano, mentre il monaco risaliva il pendio ritornando al suo tamburo.

(Continua)

Odissea in Etiopia, episodio XV

Il rito del caffè

 
 
 


 
 
 

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