Alligator Alcatraz, Papillon e il Conte di Montecristo

La letteratura da sempre anticipa gli orrori della storia, tracciando in anticipo le mappe dell’inumano che poi finiscono per prendere forma nella realtà, o forse avviene il contrario: sono gli orrori reali a ripetersi ciclicamente, per cui abbiamo l’impressione di trovarne un’anticipazione in letteratura, ma è soltanto lo stesso incubo che torniamo a vivere. Oggi, mentre seguiamo allibiti le agghiaccianti notizie su Alligator Alcatraz, il centro di detenzione per migranti costruito come una tendopoli nelle paludi delle Everglades in Florida, non possiamo fare a meno di riconoscere i contorni di un orrore che la grande letteratura aveva già descritto nei suoi dettagli più terrificanti, e che speravamo di esserci lasciati alle spalle.
Lo scenario apocalittico di Alligator Alcatraz, fatto di tende a cielo aperto su pavimenti allagati dalle acque palustri, condizioni igieniche inumane, cibo verminato, temperature insostenibili, umidità elevatissima, carenza cronica di servizi igienici, in violazione sistematica dei diritti umani, ha precedenti più che noti nella letteratura occidentale, che fino a qualche anno fa appartenevano a un passato nel quale si era per lo più concordi nel non voler ripiombare. Pensiamo alla Guyana del Papillon di Henri Charrière, memoir dell’evaso francese che descrive le prigioni coloniali dell’Isola del Diavolo. Charrière racconta come i prigionieri dovessero sopravvivere in condizioni tropicali estreme, circondati da paludi e giungle infestate da serpenti, ragni e animali velenosi, completamente abbandonati a sé stessi.
Pensiamo alle carceri dello Château d’If nel Conte di Montecristo di Dumas, una costruzione altrettanto malsana posta su uno scoglio isolato, con ambienti infestati soggetti ad allagamenti, dove al protagonista viene somministrato cibo verminato come sadica tortura.
Pensiamo alle 120 giornate di Sodoma, il capolavoro di De Sade, dove l’azione si svolge nel castello di Silling, una fortezza isolata e circondata montagne inaccessibili, per consentire ai quattro libertini ricchi e potenti di compiere indisturbati gli orrori descritti nel testo. Le vittime sono completamente isolate dal mondo esterno, in condizioni di degradazione fisica e morale, soggette a torture e private della loro dignità, fino al supplizio estremo e all’omicidio per il puro piacere di infliggere sofferenze e morte.
Per trovare descrizioni credibili del contesto in cui è stato allestito l’incubo distopico di Alligator Alcatraz, e del motivo per cui avvocati, giudici, medici, hanno difficoltà nel recarvisi, possiamo leggere la narrativa di Flannery O’Connor, Carson McCullers, William Faulkner, Joe R. Lansdale, il mondo semifiabesco di Karen Russell in Swamplandia!, la Swamp Story di Dave Barry, dove si trovano descrizioni vivide e spaventose dei luoghi in cui è stato allestito questo campo di concentramento, o eventualmente, se non abbiamo paura di guardare in faccia la realtà, lo storico saggio di Anne Butler sul penitenziario di Angola in Lousiana, teatro di orrendi abusi a sfondo razziale per più di mezzo secolo.
Alligator Alcatraz realizza la metafora conradiana del potere fine a sé stesso, in termini quasi letterali: la palude diventa il teatro di una nuova forma di colonialismo interno, il parallelismo con le pagine più buie della letteratura mondiale diventa ancor più inquietante. La letteratura ha sempre avuto il compito di mantenere viva la memoria, ma in questo caso purtroppo la realtà sembra andare oltre la finzione; compito degli intellettuali in casi come questo è suonare la squilla, ma devono essere poi le masse a prendere coscienza dell’emergenza in atto, e reagire in modo pertinente.
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