Editor o venditori di fumo? Quando il re è nudo.

Ormai un’agenzia di servizi editoriali non si nega a nessuno, può aprirla chiunque promettendo meraviglie a giovani autori (non importa il talento, basta che abbiano quattrini da spendere) promettendo di trasformare qualunque obbrobrio nel nuovo romanzo dell’estate. Nessun controllo, nessuna verifica dei titoli, nessun criterio per distinguere un editor da un venditore di sogni: è naturale che qualcuno inizi a chiedersi come si diventi quel che si pretende di essere. Cosa guardare in un sedicente curatore professionale di manoscritti – che poi, a mano chi scrive più, parliamone! – per essere sicuro che stiamo spendendo bene i nostri soldi? Possibile che lo scrittore non possa svolgere la funzione dell’editor per sé stesso, cos’è sta storia: un arcano sortilegio tipo quelli che non possono dare i numeri al lotto per giocarli direttamente? Cerchiamo di fare ordine in questa materia disseminata di spini.
Intanto, chiariamo cos’è o cosa dovrebbe fare un editor. Si tratta di una figura, nata all’interno del sistema di produzione industriale dell’editoria con l’affermarsi di libri e riviste nel mercato di massa, cui si affida la revisione profonda di un qualunque testo – fiction, saggistica, manualistica, informazione – per renderlo (in teoria) la miglior versione di sé stesso: sembra una banalità questa definizione, ma comporta innanzi tutto che la figura professionale cui viene affidato il compito sia in grado di cogliere l’anima profonda del testo su cui lavora, altrimenti come può aiutare quell’anima ad emergere dalle proprie viscere? Il lavoro di editing non riguarda dunque solo la correzione degli errori grammaticali, ma anche il contenuto, la fruibilità, la coerenza e la struttura generale dell’opera che si vuole pubblicare.
Ora, si badi a questo sottile ma fondamentale passaggio. Originariamente, il compito dell’editor veniva affidato a intellettuali e letterati interni alle redazioni che, prima ancora della nascita di una vera e propria categoria rispondente a questo nome, svolgevano funzioni di consulenza, scouting e sviluppo delle opere. Il termine si diffonde più o meno negli anni Venti del Novecento negli Stati Uniti e poi viene ‘importato’ in Italia (insieme alle gomme da masticare e al cibo in scatola) un quarantennio più tardi. Attenzione, però: in Italia i primi editor furono personaggi del calibro di Elio Vittorini, Italo Calvino, Giorgio Bassani, Vittorio Sereni, e altri che pur essendo loro stessi autori già ampiamente affermati, hanno diretto collane, scoperto autori, curato e seguito testi dalla prima lettura alla pubblicazione. Gente che si poneva rispetto alle opere loro affidate con un rapporto ‘maieutico’, non stavano certo lì a fare la marchetta e non si erano formati coi tutorial su YouTube.
La selezione di questi curatori, che venivano assunti stabilmente o ingaggiati a progetto, spettava al comitato di redazione, che si basava sui curricula di ogni potenziale collaboratore e sull’onore che questi aveva acquisito col tempo nel settore. La casa editrice era (e dovrebbe essere tuttora) il luogo di training fondamentale per questo tipo di funzione: chi entrava in redazione seguiva dunque un periodo di apprendistato diretto, quasi sempre sotto la guida di un professionista già esperto. I pre-requisiti erano ovviamente un solido retroterra nel campo relativo al settore in cui si intendeva pubblicare, ma soprattutto una lunga pratica. La selezione dunque era demandata a chi già possedeva le competenze per giudicare la qualità del lavoro svolto: queste persone erano l’editore, il produttore e tutto lo staff dell’azienda. Non l’autore.
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Spiace doverlo dire, ma oggi avviene l’inverso: non sono gli editor a ‘scoprire’ nuovi autori proponendoli a un’agenzia o un’etichetta che si faccia carico personalmente del rischio d’impresa pubblicandoli, ma sono anonimi (spesso, sedicenti o presunti) volenterosi scriventi, che privatamente si rivolgono a un editor freelance senza aver potuto ancora sviluppare competenze reali nel settore, né strumenti adeguati per giudicare la professionalità del servizio acquistato: si trovano solo a dover selezionare tra decine di proposte senza reali filtri.
Ora, se la figura dell’editor ‘embedded’ alla casa editrice rappresentava una garanzia di professionalità ed era scelto da comitati di redazione, sottoposto a filtri in base alla formazione, alla pratica, al giudizio critico, al ‘nome’ che quell’editor si era già fatto come autore a sua volta, oggi invece chiunque può proporsi come editor freelance e tutto l’investimento ricade sulle spalle dell’autore, che queste competenze non ha. Da qui l’alto rischio di speculazione e il livello di approssimazione imbarazzante, un po’ com’è avvenuto negli ultimi quindici anni con l’ottimizzazione SEO dei siti web, dove la competenza millantata non corrisponde sempre a un’esperienza reale e l’investimento spesso non arriva a dare i risultati sperati.
Per dirla fuori dai denti, chi sceglie di auto pubblicarsi ricopre di fatto tutti i ruoli solitamente distribuiti fra più figure professionali della filiera editoriale: autore, editore, imprenditore e certamente anche editor, diventando il responsabile unico della qualità e del destino (anche commerciale) del proprio libro, ma deve sviluppare quel tipo di competenze e ci vogliono anni per farlo. È un’attività non più solo creativa, in cui l’autore si carica dell’intero rischio d’impresa, gestendo anche aspetti non strettamente letterari come la qualità e il posizionamento sul mercato. Ovviamente, su ogni opera distribuita avrà un margine di ricavo fino a dieci, quindici volte maggiore, ma nel contempo dovrà anche rassegnarsi a raggiungere un margine di ‘successo’ più ristretto, dovendo dividersi tra più funzioni.
Se poi un’opera pubblicata in self attira l’interesse di una casa editrice, a quel punto viene firmato un contratto ed è l’editore a investire nell’editing, nella revisione e nella promozione dell’opera, assumendosene il rischio. Fino a quel momento responsabilità e motivazione sono tutte sulle spalle dell’autore, non su fornitori di servizi a pagamento. Insomma, come spesso ripeto, l’esperienza professionale nell’editing, nel marketing e nella gestione di tutte le fasi della filiera produttiva, è fondamentale per chi si autopubblica. Personalmente suggerisco di diffidare dai servizi editoriali offerti da chi non lavora ‘in partnership’, ovvero da chi non sia disposto a farsi carico del rischio d’impresa. Chi insomma è lì solo per fare la marchetta e sbarcare il lunario, dimenticandosi dell’opera una volta svolto il lavoro richiesto.
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