Nuove prospettive per il New Italian Epic. Wu Ming e Omero


Il caso letterario del memorandum pubblicato da Wu Ming nel 2008 e creduto da molti un fuoco di paglia autoreferenziale, ha invece aperto negli ultimi dieci anni un dibattito interessante stimolando pratiche di sperimentazione attiva.

IL MEMORANDUM
DI WU MING

La mia strada e quella di Wu Ming finiscono ogni tanto per incontrarsi, non è un curioso scherzo del ‘fato’ ma una necessità strutturale. Il problema è che venticinque anni fa abbiamo mangiato la stessa polvere, l’ambiente universitario era quello dei primi anni ’90 nel quale Blissett e la sua falange di antieroi iniziava a ‘gattonare’. Chi mi conosce da allora sa che provengo dall’Internazionale situazionista, la mia adesione al movimento della street art era influenzata dall’appartenenza a un ambiente culturale, musicale, ideologico, filosofico e letterario, di cui Bologna rappresentava un polo d’attrazione potente. A prima vista fra me e Wu Ming sono più i punti in comune che i tratti distintivi, anche se nella lettura del memorandum ho trovato fin da subito un avvertimento, un nervo scoperto che mi consente forse di chiarire (prima a me stesso, poi a chi condivide la mia ‘nebulosa’) il contributo che ho dato, nel mio piccolo mondo, a questa idea di nuova epica.

Scrive Wu Ming:

“I rapsodi greci non sono detentori esclusivi della facoltà di raccontare e tramandare, né selezionatori – autorizzati da un potere centrale – delle versioni “ufficiali” di ciascuna storia. La civiltà che si riorganizza dopo il crollo del mondo miceneo è (letteralmente) un arcipelago di città-stato, il potere è frammentato e non può garantire l’unitarietà del sapere né condensare l’immaginario a proprio uso e consumo. Le storie iniziano a cambiare e divergere, a diramarsi e intrecciarsi”.

Wu Ming, New Italian Epic 2.0, p.24

LA QUESTIONE OMERICA

Nel parlare di comunità e transmedialità Wu Ming cita un parallelo con la natura disseminata della mitologia greca e l’opera degli aedi che rielaboravano un materiale sempre diverso, aperto al contributo di tante individualità che non rappresentavano una casta chiusa: secondo l’autore del memorandum i rapsodi greci per molti secoli non detengono l’esclusiva di un potere centrale dato che dopo il crollo miceneo la civiltà del mediterraneo si sta riorganizzando in un arcipelago di città stato indipendenti le une dalle altre. Le storie iniziano a cambiare e divergere, a diramarsi e intrecciarsi. E’ proprio questo il punto su cui penso che una qualsiasi ‘nuova epica’ sia obbligata prima o poi a confrontarsi, la direzione in cui mi sono mosso parallelamente al collettivo: in realtà l’aedo fra XII e IX secolo si è mosso in un contesto di protezione da parte dei santuari e dei governi da questi legittimati, percorrendo traiettorie che pur nell’indipendenza delle città-stato manteneva comunque un senso di comune appartenenza, un’idea di ‘popolo’ contraddistinta da unità linguistica, culturale e condivisione di un territorio. Tanto che non appena l’imperialismo persiano si armò per la conquista del peloponneso, quelle comunità locali smisero di farsi la guerra e si unirono per ricacciare indietro l’invasore.



Gli aedi nei tre secoli dopo la caduta di Troia erano meno liberi di quanto non siamo portati a credere. In realtà si organizzavano in confraternite e seguivano scuole molto rigorose, iniziati ai misteri religiosi erano sotto il costante controllo dei sacerdoti. Nella foto: Omero, Philippe Laurent Roland (Louvre Museum)

L’INTELLETTUALE, LO STATO

Nelle prime fasi della tradizione omerica dunque non è esatto affermare che gli aedi fossero ‘liberi’ di rielaborare il materiale mitico e la teogonia degli dèi come loro volessero, la realtà di allora funzionava in modo assai più complesso di come intendiamo la figura dell’intellettuale moderno: il politeismo greco era infatti amministrato da santuari che facevano capo a caste di sacerdoti, gli aedi a loro volta seguivano scuole organizzate in confraternite di iniziati ai misteri, che pertanto avevano la facoltà d’improvvisare ma partendo sempre da un canovaccio comune, che doveva ricevere in ogni caso l’approvazione dei sacerdoti. L’aedo non è mai stato libero di sovrapporre la propria individualità al racconto mitico, lavorava sempre come servitore di due ‘padroni’. Quando poi arrivò il tiranno Pisistrato e pretese che tutti quegli oggetti narrativi ‘non identificati’ (comprese le ceramiche e i gioielli) venissero fissati in una forma letteraria comune, per eliminare a monte il problema delle varianti sottraendole all’effimera natura della poesia orale, l’aedo addirittura diventò ad ogni buon conto un dipendente dello Stato, paragonabile al Virgilio del principato di Augusto o se vogliamo al Majakowsky stipendiato dal governo sovietico, tanto per fare due esempi molto lontani nel tempo e nello spazio.


Busto del poeta latino Virgilio nel giardino della Crypta Neapolitana. Nel momento in cui un epos viene messo in forma scritta non produce più varianti e si cristallizza, l’intellettuale è dipendente dello Stato come l’autore dell’Eneide era al servizio di Augusto

LA NOZIONE DI ‘POPOLO’

E’ precisamente questo il nervo scoperto di una ‘nuova epica’ all’alba del terzo millennio. Il narratore multimediale è obbligato a confrontarsi con la nozione di popolo in un’epoca storica in cui la politica è azzerata, le ideologie egualitarie e libertarie vittime di damnatio memoriae, come ricorda lo stesso Wu Ming: dopo l’89 si è assistito all’arrogante onnipresenza dell’illusione socialdemocratica, presto soppiantata da un revanscismo ‘strisciante’. L’aedo nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, come lo chiamarebbe forse oggi Benjamin, non si rivolge più a un popolo ma piuttosto a una ‘community’ nel senso di gruppo che non condivide necessariamente un territorio, né una lingua e tanto meno una cultura, si ritrova sempre più disperso in una rumorosa e labirintica babele all’interno della quale è altissimo il controllo sociale e la centralizzazione del potere. Qualcuno dunque si mette al servizio delle istituzioni religiose, o eventualmente di un partito politico, di un gruppo editoriale e nel caso specifico di Wu Ming, di una vaga entità rappresentata da chi legge i suoi libri e partecipa all’attività del suo collettivo. Non un ‘popolo’ dunque, non un antagonismo ‘di classe’ ma gruppi isolati e necessariamente autoreferenziali.


Vladimir Majakowskij, il poeta della rivoluzione al servizio del partito, che gli aveva assegnato un piccolo appartamento e uno stipendio. Un intellettuale al servizio dello Stato che cantava in versi l’epos della rivoluzione. Non era ‘libero’.

PENSA GLOBALE, AGISCI LOCALE

Wu Ming è consapevole di questi problemi, mantiene sempre alto l’impegno a neutralizzarli o comunque affrontarli man mano che si presentano. E’ tuttavia un nervo scoperto. Nel momento stesso in cui il poeta mette per iscritto un epos fino a quel momento trasmesso oralmente, non è al servizio della libertà ma del potere che vuole appropriarsi di quel patrimonio culturale. Quali tiranni, si dirà allora? Quale potere? In mancanza di un partito politico, di un’istituzione civile, un ministero del culto, un’autorità costituita, l’intellettuale è al servizio di sé stesso, dell’editore che pubblica i suoi libri e dei lettori che li acquistano o della ‘community’ che si coagula intorno al progetto letterario. Nel caso di Wu Ming la nebulosa dei collettivi che la sua parola attraversa: gli aedi del terzo millennio come quelli del passato scelgono di chi mettersi al servizio, nemmeno loro sono autenticamente ‘liberi’.

L’aedo senza un popolo si fa
inconsapevole tiranno,
o è servo di un potere altro.

POPOLO E ‘COMMUNITY’

Tuttavia una comunità non è un popolo, nozione legata ancora, nel senso marxista e leninista, alla condivisione di un territorio, di una o più lingue, di una cultura materiale (per quanto sincretica e multiforme). Il pubblico della rete è selezionato, incanalato, chi approda sulla mia isola è perché sente di avere già qualcosa da condividere con me, al contrario davanti all’uomo della strada il rapsode è costretto a comportarsi come un ospite, si muove in punta dei piedi. Questa mancanza di protezione lo obbliga a cercare forme di contaminazione, a elaborare un linguaggio che gli consenta di gettare ponti fra monadi culturali, tessere il filo di una memoria comune, di un sentimento collettivo, di una coscienza sovra-individuale. Siamo noi al servizio del popolo, non l’inverso. E’ in questo senso che una Nuova epica ha bisogno d’inserirsi in tradizioni locali preesistenti: la community frammenta, divide, il popolo unisce. L’aedo senza un popolo si fa inconsapevole tiranno, o è servo di un potere altro.

IL MEZZO E’ IL MESSAGGIO

Wu Ming è estraneo a questo tipo di procedimento, in realtà la sua presenza sul territorio è sempre stata coerente e attiva negli happenings, nei laboratori di scrittura collettiva, nella partecipazione alle attività dei comitati, dei centri sociali; nel momento in cui prende forma il libro e viene dato in pasto alle stampe, qualcuno rimprovera al collettivo un salto che lo pone in posizione dominante. Il problema è capire a chi serve la formalizzazione di quel mito, qual’è la ‘sua’ rivoluzione. S’è detto che i libri di Wu Ming sono a loro volta cultura di massa e in virtù di questo, se come diceva Mc Luhan il mezzo è il messaggio, allora è quanto mai singolare che un’idea di antagonismo e rivolta possa vendere milioni di copie senza che all’idea corrisponda un’azione politica altrettanto partecipata. E’ un falso problema a mio parere, ma impone senz’altro uno sguardo meno distaccato sul problema della letteratura militante. Un’epica senza un popolo è paradosso, mimesi, tragedia che si ripete in forma di farsa; e un collettivo di per sé non è ‘popolo’ ma solo minoranza dissidente, pesce rosso che nuota in un oceano di mansueta acquiescenza.


Un epos orfano della nozione di popolo rischia di risolvere in prodotto di consumo, manipolabile da chi ha il controllo del medium tecnologico. L’antidoto all’omologazione sta nell’azione che dalla parola consegue, torniamo dunque nel campo del teatro epico di Brecht, dal quale eravamo partiti.

IL TEATRO EPICO

Questo è forse il punto più controverso di una nuova epica nell’era del ‘blockchain’ in cui l’epos viaggia su binari che non gli appartengono, dove mito e rito sono slegati, la parola e l’azione non risolvono l’uno nell’altro. L’idea lievita, fermenta, cresce, si scollega dalla realtà che l’ha prodotta per diventare oggetto di culto da parte di una massa indifferenziata; in questo modo senza nemmeno rendersene conto si fa a sua volta ‘moda’, col tempo finisce per essere svuotata di contenuto e goduta nell’apparenza formale. Alle parole non corrispondono i fatti, cosa che nell’arte dell’aedo nell’antica Grecia era semplicemente impensabile, dato che la narrazione serviva a educare l’azione e motivarla. Il problema forse è ritrovare quell’unità fra ‘nebulose’ che porta alla formazione di galassie, a coltivare un terreno ideologico su cui possa rinascere un’autentica lotta di classe. L’internazionale delle idee. Siamo ricaduti nell’orbita del teatro epico brechtiano, dal quale Wu Ming si dissocia fin dall’inizio del suo memorandum. Eppur si muove, con la parola puoi dire tutto e il suo contrario: sono le azioni che suggerisce a darle un senso. A un’epica delle parole, propongo di affiancare una dialettica dei fatti.

POTERE AL POPOLO

In conclusione non si può imputare a Wu Ming la responsabilità di un’idea, quella di ‘popolo’ che è implosa, l’intero pamphlet sulla New Epic parte proprio dalla deriva neoliberista seguita ai fatti dell’89. La nozione di popolo è stata sostituita da quella di ‘community’, lo stesso antagonismo ha iniziato a parlare di ‘comunitarismo’, non è dunque una scelta del collettivo adeguarsi al nuovo contesto e provare a ricostruire sulle macerie di un mondo che è sprofondato nel sottosuolo come un gigante dal tallone di fango, il cadavere del ‘grande vecchio’. Il problema è superare questa fase e riprendere a tessere il filo di un discorso interrotto trent’anni fa, in modo tale che sia possibile riappropriarsi di un epos autentico, al servizio di un’azione antagonista non manipolabile, non dissimulabile nei consueti disordini ‘false flag’ e con un’adesione realmente popolare, non di nicchia e non di massa. Ripartire dalla nozione di popolo, non stancarsi mai di revisionare il revisionismo, riappropriarsi del materialismo storico.

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