Staveco, la città fantasma. Laboratorio di rigenerazione urbana

Nel cuore di Bologna, sui viali di Porta San Mamolo, si estende un luogo che sfugge alla percezione collettiva della cittadinanza: un paradosso territoriale di 93.000 metri quadrati che fisicamente esiste, ma tende a scomparire dalla consapevolezza condivisa dello spazio urbano. Come non ci fosse. Si conosce perlopiù il modesto parcheggio a pagamento che da qualche anno ne occupa una minima parte. Il resto rimane invisibile, come un vuoto attraverso il quale si potrebbe raggiungere l’ospedale Rizzoli sui colli quasi a piedi, invdece di girare attorno a quest’isola del nulla.
L’area Staveco di Bologna ha una storia interessante. Nel 1796, coll’ingresso di Napoleone in città, venne istituito un ospedale e una caserma negli edifici dell’adiacente Convento dell’Annunziata; durante l’occupazione austriaca l’area si espanse con la creazione dell’Arsenale, formando un nodo strategico di collegamento tra le diverse installazioni militari cittadine. Con la proclamazione del Regno d’Italia venne chiuso il Convento e si formò nell’area un Laboratorio Pirotecnico (fabbrica di esplosivi) dalla parte di Porta Castiglione, attivo dal 1880. Nei decenni seguenti divenne uno dei più importanti stabilimenti industriali bolognesi, durante la Prima Guerra Mondiale arrivò a mobilitare fino a 18.000 dipendenti. Fino alla Seconda Guerra Mondiale continuò a produrre armamenti per l’industria bellica, poi si riconvertì per un altro mezzo secolo in centro per la riparazione dei mezzi militari. Si chiamò prima Ormec, poi Staveco, poi Stamoto, da cui il nome con cui si conosce diffusamente l’area oggi.
Nel 1991 lo stabilimento venne definitivamente chiuso e l’area in meno di dieci anni si ritrovò completamente abbandonata: un relitto industriale con le strutture lasciate al degrado e l’avanzamento della vegetazione spontanea. L’area Staveco si colloca lungo un asse viario di particolare rilevanza storica e urbanistica, Via Alessandro Codivilla, una delle opere viarie più significative del periodo della Restaurazione, progettata nella prima metà dell’Ottocento dall’ingegnere Enrico Brunetti Rodati.
Il tracciato, che collega via San Mamolo al complesso di San Michele in Bosco attraverso un percorso di 800 metri con un dislivello di 135 metri, costituisce un elemento di continuità territoriale tra il centro storico e la collina; questa connessione assume particolare significato nel contesto della rigenerazione dell’area Staveco, configurandosi come potenziale “porta d’accesso al colle Codivilla” capace di integrare il centro di Bologna con le strutture collinari dell’Istituto Ortopedico Rizzoli e del complesso di San Michele in Bosco.
Dal passaggio di proprietà dell’area dal Ministero dell’Interno al Demanio, diversi progetti di riqualificazione urbana sono andati in fumo: il primo fu l’idea di un Campus universitario con un polo di Informatica, Belle Arti, Statistica e Management su 15.000 metri quadrati di area da riqualificare. Il progetto avrebbe comportato l’abbandono di alcuni locali storici dell’Università nel centro storico e per questo non trovò riscontro nel rettorato, che preferì riqualificare le sedi già esistenti. Si è passati poi all’ipotesi di un nuovo polo giudiziario contornato da aree destinate ad attività ricreative, commerciali e culturali, con tre ettari destinati a parco urbano di collegamento tra centro e collina. Gli investimenti necessari sono però difficilmente sostenibili aò momento.
Nonostante le difficoltà incontrate, l’area Staveco mantiene caratteristiche che la rendono particolarmente idonea a progetti di rigenerazione urbana: la sua estensione consente interventi di scala significativa, capaci di generare impatti territoriali rilevanti; la posizione strategica offre opportunità di integrazione funzionale difficilmente replicabili in altri contesti. L’esperienza dei fallimenti precedenti suggerisce la necessità di un approccio graduale e modulare, piuttosto che perseguire trasformazioni radicali è più realistico sviluppare strategie incrementali che consentano la realizzazione di singoli progetti per fasi successive.
La valorizzazione del patrimonio storico-architettonico, attraverso il recupero degli edifici esistenti e la conservazione degli elementi identitari, dovrebbe costituire di conseguenza il filo conduttore per qualsiasi intervento futuro. La creazione di un parco urbano che integri le aree verdi spontanee con spazi attrezzati per la fruizione pubblica potrebbe rappresentare un elemento di attrattività e qualificazione territoriale di notevole impatto. La “città fantasma” che caratterizza attualmente l’area non deve essere interpretata esclusivamente come simbolo di un fallimento storico, ma piuttosto come un’opportunità di sperimentazione per modelli innovativi di rigenerazione. La conservazione della sirena antiaerea, ultimo testimone materiale della storia militare del sito, sta a ricordare proprio la necessità di preservare la memoria storica che fa di questo non-luogo un luogo potenziale.
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