Il caso dei fratelli Ramponi e l’ombra del suicidio per debiti

Il caso italiano dei fratelli Ramponi, sul quale sta piovendo una valanga di informazioni sostanzialmente mutile, è un indicatore del disagio sociale in cui sta sprofondando l’Italia in questo delicato momento storico. La stampa nazionale si è concentrata sulla tragedia dei tre carabinieri caduti in missione, per sgomberare i fratelli dal casolare in cui vivevano, in condizioni di povertà estrema. Tralasciando o sottostimando, la tragedia profonda che ha portato una famiglia in rovina, al punto da minacciare di farsi esplodere insieme alla casa da cui doveva essere sgomberata: atto che si intendeva rivolto in realtà contro sé stessi, non contro gli agenti, e dettato da una serie di avvenimenti che hanno del surreale.

Non è facile ricostruire le vicende familiari che hanno portato a un finale di partita così spaventoso, perché si trovano disseminate in modo caotico, annegate in una confusa retorica agiografica e patriottica; si tenga presente l’età dei Ramponi compresa fra 60–70 anni e il fatto che non avessero precedenti penali. La titolarità dell’azienda agricola era formalmente intestata al solo fratello maggiore Franco, gli altri due vi partecipavano indirettamente come eredi e familiari. Il tutto è accaduto in seguito a una truffa da parte del fratello minore Dino a carico di una banca locale, che una serie di complicazioni giudiziarie ha finito per far ricadere sui beni di famiglia, dei quali Dino era compartecipe, se pure non titolare.

Il fratello più giovane aveva già manifestato in precedenza comportamenti quanto meno irresponsabili, incorrendo nel 2012 in un incidente mentre guidava il trattore senza luci e senza assicurazione. Ci scappò il morto e questo comportò una serie di debiti personali conseguenti all’incidente. Quindi nel 2014 Dino stipula con il Credito Padano, a nome dell’azienda familiare (senza averne titolarità e contraffacendo la firma del fratello maggiore) un mutuo di 70.000 euro, per un frutteto dice lui. La contraffazione della firma risulta poi accertata in sede giudiziaria da una perizia calligrafica, confermando una sostanziale negligenza da parte dell’istituto di credito nel mancato controllo dell’identità del firmatario, specialmente se si tiene presente la caratterialità del soggetto, nota nel piccolo paese di Castel d’Azzano. Il caso sembrerebbe con ogni evidenza un problema privato fra Dino Ramponi e il Credito Padano, ma finisce per ricadere sull’azienda di famiglia nonostante la falsificazione della firma.

Secondo la stampa nazionale il saldo delle rate si interrompe quasi subito dopo la stipula del contratto, non è chiaro il numero esatto di quote saldate ma nei giornali si parla un numero molto esiguo di mensilità; queste vengono saldate oltretutto sempre dallo stesso contraffattore della firma, ovvero dal fratello più giovane Dino, il quale utilizza parte del mutuo per risolvere le sue precedenti controversie dovute all’incidente. Franco è ancora all’oscuro di tutto. Il frutteto ovviamente non viene mai realizzato, quindi il denaro del mutuo non risulta reinvestito nell’azienda, rimanendo piuttosto nell’usufrutto privato del contraffattore. Nel 2015 il fratello maggiore, titolare dell’azienda, riceve notifica dalla banca del pignoramento in corso e in quell’occasione contesta al Credito Padano l’autenticità della firma, dunque la legittimità del contratto. Franco avvia quindi subito un contenzioso legale con la banca, sostenendo che la questione non riguardi l’azienda, ma soltanto Dino Ramponi e il Credito Padano. A questo punto accade l’inverosimile: il ricorso di Franco non viene accolto e la banca vince in primo grado, il pignoramento dei beni di famiglia prosegue, l’azienda agricola viene svalutata e messa all’asta. La banca si avvale del diritto di legittimità sul contratto avendo Dino pagato delle rate e Franco omesso denuncia (come avrebbe potuto denunciare qualcosa di cui non era ancora a conoscenza?), per la banca il contratto risulta pienamente valido nel momento in cui viene avviata la pratica di pignoramento.

La firma falsa dovrebbe invalidare il contratto con la banca, l’azione legale di Franco, ovvero la denuncia e querela del falso, sposterebbe in teoria l’onere della prova sulla banca stessa, costringendola a dimostrare l’autenticità della firma, ma di questo nulla sembra interessare al giudice. Sì, perché se pure il contraffatore non è titolare legale dell’azienda, risulta comunque comproprietario di parte dei terreni, insomma della proprietà fisica ereditata insieme agli altri fratelli: quindi, essendo egli debitore verso la banca del capitale ricevuto e non interamente saldato, l’istituto di credito può rivalersi legittimamente sulle sue proprietà, indipendentemente dalla contraffazione della firma. Cioè la banca ha prestato denaro a un soggetto fragile, sul quale pendeva oltretutto l’ombra dell’incidente mortale avvenuto solo due anni prima, in un piccolo paese come Castel d’Azzano, ma la responsabilità di questa negligenza ricade sulla famiglia del truffatore, non sull’ente che irresponsabilmente non ha preso le dovute informazioni sul soggetto da finanziare.

In pratica, tre fratelli e un’azienda agricola vanno in fumo portando sul lastrico tre persone anziane per una truffa perpetrata da uno di loro privatamente. Il tutto in conseguenza di un degrado noto in precedenza. A nulla valgono i ricorsi. Quando nel 2024 viene applicata per la prima volta l’ordinanza di sgombero coatto, i Ramponi vivono ormai in condizioni estreme, non solo per la truffa del fratello ma anche per le spese legali sostenute in dieci anni di controversie giudiziarie. Si trovano senza corrente elettrica, senz’acqua, i vicini di casa sotengono che escano di notte a cercare del cibo e raccolgano l’acqua piovana sul tetto. Questa la situazione in cui versano al primo sgombero del 2024, quando iniziano a minacciare di farsi esplodere insieme al casolare di famiglia. La prima volta le forze dell’ordine riescono a evitare la tragedia, ma un anno più tardi la scena si ripete e stavolta ci vanno di mezzo tre carabinieri, inviati oltre tutto sul campo senza le adeguate protezioni.

Si poteva evitare? Senza dubbio si sarebbe potuto fare qualcosa di più che limitarsi alla forza bruta, per esempio attivando i servizi sociali molto prima che la situazione degenerasse fino a quel punto. Purtroppo non ci sono evidenze di un supporto attivo o percorsi di affiancamento concreti, la situazione critica era ben nota al vicinato e al contesto locale ma non si è attivata nessuna rete di di protezione. La vicenda dei fratelli Ramponi a Castel d’Azzano è un chiaro segno della crisi profonda che sta attraversando la società civile italiana: il disfacimento dei vincoli solidaristici, l’isolamento crescente dei soggetti fragili, la mancanza di tutela e prevenzione, la violenza del capitale, l’inumanità del sistema bancario, tutto questo riflette un quadro più ampio di crisi sociale.

Questa situazione è aggravata da un contesto economico incerto, da una crescita della povertà e della disuguaglianza, dalla difficoltà in cui versano tante famiglie e dalla percezione di uno Stato sempre più distante che privilegia l’interesse di pochi a scapito della coesione e del benessere collettivo; se a ciò si aggiunge la responsabilità di chi non ha messo le forze dell’ordine in condizione di poter operare efficacemente, osservando le norme relative alla sicurezza degli stessi agenti, ecco il risultato finale. Una tragedia che va ben oltre la morte dei tre agenti, che pur tutti noi onoriamo. Negli ultimi anni in Italia i casi di persone che si suicidano per motivi legati al debito sono aumentati e rappresentano un fenomeno davvero preoccupante. La cosiddetta Legge Salva Suicidi del 2012 era nata proprio per affrontare questa emergenza, offrendo strumenti giuridici per il sovraindebitamento, come la ristrutturazione o la cancellazione dei debiti in base alle reali capacità economiche del debitore, ma il numero di persone schiacciate da questo peso resta ancora troppo alto, con tre milioni di cittadini in sovraindebitamento cronico e un incremento dei pignoramenti del 18%. Si parla addirittura di 300 suicidi al mese collegati a condizioni di disagio economico e sociale, migliaia le richieste di aiuto da parte di persone in crisi finanziaria estrema. Troppe famiglie italiane lottano per far fronte alle spese quotidiane. Ecco perché non possiamo ridurre il caso dei fratelli Ramponi al solo compianto per i tre agenti caduti. C’è una carie molto più profonda da curare.

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