Lovecraft e l’inconscio in redazione. “Il Prete Malvagio”

Howard P. Lovecraft, “Il prete malvagio”. Voce narrante Federico Berti

Non voleva essere un racconto, o forse sì. Il prete malvagio è la narrazione di un sogno del 1933, che l’autore non pubblicò mai, né destinò (non formalmente, almeno) a un pubblico. Si limitò a raccontare quel sogno a Bernard Austin Dwyer, negando al testo uno status propriamente letterario. Dwyer non era che un ammiratore, un impiegato postale di New York appassionato di Weird Fiction e soprattutto, un aspirante scrittore a sua volta: era entrato in contatto con Lovecraft proprio per confrontarsi su temi legati alla narrazione del soprannaturale, nelle sue lettere gli chiedeva consigli inerenti la scrittura e il maestro gli rispondeva con lunghe e dettagliate missive, incoraggiandolo e consigliandolo.

Bene, Lovecraft era un narratore compulsivo e le sue lettere non erano semplici comunicazioni, ma vere e proprie performance letterarie. Dwyer non si fermava alla produzione finita, ma voleva entrare nel processo creativo, voleva capire come nascevano le sue storie: raccontargli un sogno era dunque un modo per mostrargli il materiale ‘grezzo’ su cui può costruirsi un racconto dell’orrore. Non era dunque una semplice corrispondenza privata, ma una lezione di scrittura. Nella mente di Lovecraft, che tendeva un poco al settarismo, Dwyer divenne Fra Bernardus di West Shokan, nome con cui parlò di lui a Clark Ashton Smith segnalandogli la sua volontà di trasformare quel sogno in un racconto vero e proprio e pubblicarlo.

È questo che rende il taglio postumo della lettera e l’invio a Weird Tales da parte dello stesso Dwyer un atto così denso di significato, un tragico fraintendimento del rapporto che i due avevano instaurato. Fu così che il sogno epistolare venne pubblicato su Weird contro la volontà dell’autore, o forse (chi può dirlo) proprio secondo le sue aspettative. La sua esistenza come racconto autonomo è dunque accidentale, non va letto per la trama o per meriti narrativi particolari, ma come un documento utile a comprendere il processo creativo e le pratiche editoriali del Novecento americano. In pratica il Prete Malvagio è manifesto involontario di una scrittura combinatoria, dove il confine tra vita privata e opera pubblica, tra meditazione sull’inconscio e produzione artistica, tra autorialità individuale e intervento collettivo, è quanto mai sottile.

Non è un caso isolato, Azathoth nacque pure da un sogno trascritto in una lettera a Clark Ashton Smith, seguendo un percorso identico a quello del Prete Malvagio. In modo simile The Very Old Folk esisteva solo come abbozzo narrativo all’interno di una corrispondenza privata, prima di essere estratto e pubblicato come racconto autonomo. The Book è un altro frammento onirico che acquistò status letterario solo attraverso l’intervento editoriale postumo. Questi testi condividono una genesi non intenzionale, la loro esistenza come racconti compiuti dipende solo dalle decisioni curatoriali di August Derleth e della casa editrice Arkham House, fondata nel 1939 con la missione esplicita di preservare e diffondere l’opera di Lovecraft. Il ruolo di Derleth e dei suoi collaboratori si rivela quindi cruciale per comprendere la natura ibrida del corpus attribuito all’autore: siamo insomma di fronte a un processo che, sebbene animato dalla volontà di promozione ad memoriam, si fonda tuttavia su un’autorialità condivisa tra Lovecraft e i suoi curatori. Se nel caso del Prete Malvagio questo processo è documentato, negli altri casi lo possiamo solo dedurre da altre informazioni e questo forse potrebbe porre un problema etico.

Veniamo al contenuto del sogno e proviamo ad analizzarlo non più come opera letteraria, ma proprio come manifestazione del subconscio trascritta dal sognatore stesso. Il primo elemento che incontriamo è una soffitta piena di libri messi all’indice, testi di magia naturale, studi sulla demonologia e altre opere che senza dubbio dovevano essere familiari a Lovecraft, il quale visse in povertà e morì semisconosciuto coltivando nella sua torre d’avorio un genere letterario minore, che al’epoca non veniva preso troppo sul serio. I suoi racconti apparivano su riviste pulp (raccontini economici stampati su carta di pessima qualità), destinate sì a un pubblico di massa, ma poco colto e interessato all’evasione più che all’arte; queste riviste erano già considerate da molti pura e semplice spazzatura. Lovecraft soffriva di un grave disturbo d’ansia e depressione, pare fosse ipocondriaco, i vicini di quartiere a Brooklyn, dove viveva, ne parlavano come di uno strano signore che si vedeva in giro solo la notte. Lovecraft fu un emarginato per scelta e per temperamento.

La torre d’avorio in cui viveva, non era che un riflesso del suo isolamento volontario, conseguente a uno stato di profonda alienazione intellettuale: disprezzava la modernità, il capitalismo sfrenato, l’immigrazione (che vedeva come un inquinamento della purezza anglosassone) e la cultura di massa. Si considerava un uomo nato fuori dal suo tempo, un gentiluomo del Settecento intrappolato nel XX secolo. Questo disprezzo lo portò a emarginarsi da solo: rifiutò di svolgere lavori diversi dalla scrittura, vivendo di una misera rendita e dei lavori di ghostwriting che riusciva a trovare. Si sentiva superiore alla società che lo circondava, ma allo stesso tempo ne era dipendente e ne soffriva la mancanza di riconoscimento.

La figura del prete malvagio è l’incarnazione di un conflitto interno alla sua vita. Lovecraft si sentiva in qualche modo conteso tra una ragione illuminista, materialista, laicista e una fascinazione profonda per l’irrazionale, il soprannaturale. Un analista dei sogni andrebbe a ricercare probabilmente nella famiglia di origine l’incubazione di questo tormento interiore, e non potrebbe fare a meno di interrogarsi sul rapporto di Lovecraft col nonno materno Whipple Van Buren Phillips: uomo colto, di successo, un massone che gli raccontava storie gotiche ma gli insegnava anche lo scientismo e i fondamenti dell’antroposofia. Quando il nonno morì e l’impero finanziario che aveva creato crollò, rivelando una quantità enorme di debiti, il mondo ordinato e sicuro che quell’uomo gli aveva promesso entrò in una sorta di metaforica bancarotta intellettuale. Il prete insomma rappresenta quella parte di lui che, educata al pensiero scientifico e al materialismo del XVIII secolo, sente il dovere di respingere tutto ciò che è superstizioso, irrazionale. Un atto ipocrita, avendo coltivato quelle letture per una vita, bruciarle non servirà a molto: il censore condanna pubblicamente quel che in segreto desidera e studia.

Ma gli aspetti personali in questo processo di autoanalisi condivisa, non si esauriscono qui: sua madre, dopo la morte del marito (ricoverato in manicomio e morto di sifilide quando Lovecraft aveva 8 anni) sviluppò un rapporto morboso e iperprotettivo con il figlio, ripetendogli costantemente quanto fosse simile al padre, instillandogli un complesso d’inferiorità e il terrore di fare la sua stessa fine. Soggetta a manifestazioni di isteria, molto religiosa ma mentalmente instabile, lei stessa rappresentava per Lovecraft l’esempio vivente di quel che può accadere quando la razionalità cede il passo al delirio. L’autocensura del prete malvagio può legarsi al doppio timore di tradire l’eredità razionale del nonno cadendo nell’ossessione superstiziosa, ma anche il timore di ereditare la follia del padre e della madre. Il prete che brucia i libri potrebbe dunque essere visto come un tentativo disperato di distruggere la conoscenza maledetta che teme possa indurlo alla pazzia, proprio come era accaduto ai suoi genitori. Tema onnipresente in Lovecraft.

Il momento culminante del sogno, lo scambio di personalità tra il protagonista e il prete malvagio, rivela la paura più profonda dell’io cosciente: perdere il controllo, fondere il proprio io con un altro percepito come inaccettabile. Metafora perfetta della dissociazione schizofrenica e della perdita d’identità. Nel momento dello scambio, il confine tra sé e altro si dissolve, rivelando che la distinzione tra io e non-io è molto più fragile di quanto la coscienza ordinaria voglia ammettere. Il protagonista non combatte contro un nemico esterno, ma sperimenta la terrificante possibilità che il nemico sia dentro di lui.

Fatte queste considerazioni, non è del tutto corretto affermare che il Prete Malvagio non volesse porsi come un racconto. Lo voleva, eccome. Non era pronto per le riviste su cui scriveva normalmente Lovecraft, madoveva essere per lui l’inizio di un processo di composizione narrativa che partiva dal subconscio, un processo che aveva scelto di condividere con il suo devoto corrispondente per testimoniare proprio il modo in cui da un sogno si può pervenire a un racconto letterario, tema che l’autore affronta anche nel suo trattatello sulla scrittura, in cui parla chiaramente ed esplicitamente del sogno come di una delle fonti cui è solito attingere il materiale d’ispirazione. Voleva mostrarlo a Dwyer, che tuttavia in quel contesto pur privato, intimo, era per Lovecraft il destinatario di una meta-narrazione: il racconto di come nasce un racconto. In questo senso, rimane un testo importante, da confrontarsi con le opere mature dello stesso autore.


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