Logos e Phonè. La voce narrante nell’epoca della sua mimesi digitale

Logos e Phonè

La voce narrante nell’epoca della sua mimesi digitale

Articolo di Federico Berti

Negli ultimi anni il mondo degli audiolibri è cambiato. Podcast narrativi, drammi sonori, nuove forme ibride di storytelling digitale stanno ridefinendo i ruoli, le aspettative e i linguaggi, in un mondo sempre più condizionato dalla mimesi dei sistemi di modellizzazione e dall’abuso di voci sintetiche. Si cerca sempre più spesso nella voce l’elemento umano, non più soltanto un mezzo di trasmissione del testo, ma un vero e proprio strumento musicale in grado di produrre senso, atmosfera e pensiero, quasi come un attore sul palcoscenico: s’impone sempre più la figura del narratore empatico, portatore di un’interpretazione che eleva il testo a programma della scena. Se fino a pochi anni fa era inconcepibile la lettura come arte indipendente e non solo come maestranza, la neutralità propria degli audiolibri di prima generazione viene messa ora da parte di favore di scelte che entrano nel merito del testo incarnato, dandogli uno spessore performativo al pari di una messinscena teatrale o una trasposizione cinematografica, pur senza perdere il rispetto per la fonte primaria, vale a dire il testo letterario integrale.

Questa evoluzione non nasce dal nulla ma è conseguenza di una trasformazione tecnica e culturale che negli ultimi anni ha stravolto completamente il settore, la penetrazione delle voci sintetiche e delle intelligenze artificiali nel campo della lettura neutra. L’automazione riproduce con estrema facilità ciò che fino a ieri veniva considerato l’insieme dei requisiti professionali propri del narratore di audiolibri: dizione corretta, ritmo regolare, assenza di sbavature emotive. Quel che fino a pochi anni fa era sinonimo di buona lettura sta diventando sempre più riproducibile, replicabile, scalabile; di fronte a questa crescente standardizzazione, la voce umana avrebbe potuto essere condannata all’irrilevanza o relegata a un’imitazione inefficiente della perfezione digitale, ma a quanto pare sta accadendo esattamente l’opposto: proprio per distinguersi dalla neutralità programmata delle macchine, molti narratori, registi audio e autori stanno spingendo la voce verso una dimensione più profonda, complessa, dichiaratamente performativa. Una voce che non si limita a trasmettere il testo, ma che lo interpreta; che non si accontenta di riprodurre la pagina, ma la riscrive nello spazio immaginario dell’ascoltatore. È un cambiamento qualitativo che segna una vera e propria rifondazione del ruolo della vocalità nell’ecosistema audio contemporaneo.

Questa nuova tendenza è visibile, ad esempio, nei progetti di lettura emozionale, che si avvalgono di una tecnica attoriale sempre più articolata, uno studio registico delle intenzioni, una consapevolezza musicale del ritmo e persino una sorta di scenografia invisibile costruita attraverso la modulazione timbrica della voce stessa. Non una drammatizzazione classica, non un teatro registrato: questa pratica si pone piuttosto come un genere ibrido in cui la voce, sola (o quasi) assume su di sé la responsabilità di evocare il mondo possibile sprigionante dal testo nell’immaginazione dell’ascoltatore. Una lettura necessariamente emozionale, che in questa fase di transizione si viene a sviluppare come un genere ibrido al quale il pubblico degli audiolibri tradizionali può non essere ancora avvezzo, vivendolo come una ‘pessima narrazione’ in cui la voce del narratore sovrasta e invade il testo mancandogli quasi di rispetto. In realtà si tratta di un’evoluzione che il genere sta gradualmente affrontando, per non rimanere schiacciato dall’automazione dei processi produttivi: se non vuol scomparire, deve sviluppare un più alto livello di specializzazione che non sia alla portata delle reti neurali, delle voci sintetiche, evolvendo in forma d’arte autonoma.

Per comprendere fino in fondo questa trasformazione è necessario ripercorrere brevemente l’eredità storica della narrazione audio. Il radiodramma del Novecento, con la sua capacità di creare mondi attraverso dialoghi e scene sonore, rappresentò fin dagli anni ’20 la prima grande forma di finzione pensata esclusivamente per l’ascolto. Il suo linguaggio, asciutto e diretto, subordinava la parola a una struttura ritmica pensata per sostituire l’immagine scenica: l’attore doveva suggerire la presenza fisica attraverso un corpo ridotto a pura voce, come la sibilla del mito. Anche allora le nuove tecnologie della radio, della produzione discografica, rischiavano di mettere in crisi l’industria dell’intrattenimento dal vivo, essendo l’incisione in studio replicabile. Gli audiolibri si sono innestati successivamente su questa tradizione. Da un lato hanno preservato la linearità del testo, che nel radiodramma veniva sostituito dalle riscritture e dagli adattamenti; dall’altro hanno aperto la strada a formati sempre più elaborati, letture a più interpreti e drammatizzazioni in stile cinematografico. Queste ultime, sempre più popolari sulle piattaforme digitali, utilizzano cast completi, effetti sonori, musiche e adattamenti per un’esperienza immersiva simile a quella del cinema, seppur dominata dall’immaginario sonoro.

Tuttavia, proprio l’iperproduzione ha sollevato negli ultimi anni una serie di critiche riportando al centro il valore della voce nuda: gli effetti sonori costanti, la musica onnipresente, il frastuono di ambienti ricostruiti con zelo tecnico tendono spesso a saturare l’ascolto, sottraendo spazio all’immaginazione e alla capacità cognitiva dell’ascoltatore di costruire mentalmente la scena. In alcuni casi, la ricchezza sonora diventa una distrazione, spezza il ritmo della narrazione e riduce la voce a un elemento tra gli altri, invece di valorizzarla come guida emotiva del racconto. Di fronte a questi limiti, la teatralità minimalista ha riconquistato spazio, alcuni narratori contemporanei hanno compreso che la vera forza dell’audio sta nella sottrazione, non nell’aggiunta: nel modo in cui una voce sa respirare una frase, nel peso dei silenzi, nella scelta di far vibrare una parola (una sillaba) più dell’altra, nella modulazione che suggerisce un sorriso o un cedimento, senza bisogno di effetti sonori o musiche di supporto. La voce umana, quando è tecnicamente preparata e artisticamente consapevole, può creare tensione, profondità e atmosfera semplicemente modificando la distanza dal microfono, il ritmo interno di una frase, la tessitura emotiva di un respiro, l’uso dei risuonatori vocali corporei, l’alternanza dei registri, la sonorizzazione del testo attraverso la musicalità della voce impiegata come strumento musicale.

Questa forma di minimalismo sta evolvendo in poetica della narrazione incarnata, nella quale si rispetta il testo originario leggendolo integralmente senza il riadattamento proprio del radiodramma novecentesco. La voce non invade lo spazio dell’ascoltatore ma lo invita, lo apre, lo accompagna, ed è proprio in questa relazione che la voce umana dimostra la sua superiorità rispetto a qualsiasi sintesi artificiale, marcando (anziché nascondere) le sue tracce identitarie, le vibrazioni emotive, le imperfezioni significative che rendono possibile la costruzione di un’empatia reale. Ed è qui che la vocalità contemporanea rivela un altro dei suoi tratti più importanti, la capacità andare oltre lo stereotipo. Questo movimento verso una voce più libera e più consapevole va di pari passo con una trasformazione più ampia del mercato e delle pratiche stesse di ascolto. L’audiolibro non è più percepito come un surrogato della lettura tradizionale, ma diventa un’esperienza autonoma, con una propria dignità estetica. Lo stesso vale per il podcast narrativo, che ha ereditato dal radiodramma la capacità di costruire mondi sonori e che oggi, in molti casi, è diventato uno dei laboratori più vivaci della sperimentazione vocale contemporanea.

L’istituzionalizzazione di questa nuova centralità della voce è evidente anche sul piano culturale, l’introduzione di premi internazionali dedicati alla narrazione audio, come le categorie dei Grammy per audiolibri e storytelling, testimonia un riconoscimento ufficiale del medium come forma d’arte. Ciò che fino a dieci anni fa sembrava un settore di nicchia è ora parte integrante dell’industria culturale globale. La voce, insomma, è tornata a imporsi come gesto estetico, come strumento critico, come veicolo identitario proprio in quanto le tecnologie che avrebbero dovuto sostituirla hanno in realtà reso più evidente il suo valore insostituibile. A questo livello di elaborazione, si può ascoltare lo stesso audiolibro da più voci diverse proprio per metterne a confronto le scelte personali, penetrando ancor più a fondo nel testo. Allo stesso modo non tutti gli ascoltatori sono pronti per questo salto evolutivo, e soprattutto la sempre minor standardizzazione (o modellizzazione) del linguaggio porterà ogni utente a familiarizzare con le voci che più toccano le sue corde. Va da sé che questo comporta anche una maggior specializzazione degli interpreti, cui viene richiesta una competenza superiore rispetto alla semplice ‘buona lettura’ un tempo propria dell’audionarrativa.

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