Il sonno dell’umanità. Ercole, Atlante e Giacomo Leopardi
Giacomo Leopardi nelle “Operette morali” mette a tacere tutti quelli che vorrebbero ridurre la sua poesia e il suo pensiero a un melenso piagnisteo. In realtà l’opera è pervasa di una vivacissima ironia satireggiante, con la quale si prende gioco di tutta la società del suo tempo. Son brevi scritti, densi di riferimenti mitologici e letterari, che dimostrano da un lato l’altissima erudizione dell’autore; mi permetto di notare che l’editoria contemporanea, nel sottoporre a revisione questi testi (semmai fossero proposti da un autore contemporaneo), tenderebbe alla semplificazione estrema, deturpandoli oscenamente, perché la complessità non viene percepita come un valore nella pubblicistica contemporanea. Forse questo è il motivo per cui Leopardi è stato ridotto alle lamentazioni di un povero gobbo insoddisfatto, quasi per difendersi dalla vivacità della sua opera, e dalle competenze cui l’autore rimanda, dagli approfondimenti che suggerisce. Il pessimismo nelle operette morali, non è passivo e non è involutivo, ma trasuda di un riso beffardo con cui l’opera si prende gioco di tutto e di tutti.
In questo dialogo tra Ercole e Atlante, i due archetipi del mito classico giocano a palla con la Terra, per mostrare la fragilità della nostra condizione esistenziale, ma dietro a questo primo strato ermeneutico lo scritto manifesta un secondo livello di interpretazione: quando Ercole afferma che gli uomini non si sono accorti di nulla e continuano a dormire, nonostante vengano continuamente sbattuti da una parte e dall’altra nel gioco semidivino, Leopardi ironizza sull’inerzia della società e l’inaccessibilità della conoscenza profonda delle cose da parte dell’umanità, caduta in un sonno profondo che è prima di tutto il sonno della coscienza.
La Terra dice Atlante, è diventata ormai tanto leggera da potersi trasportare con scioltezza, metafora di un’umanità che ha perso vitalità lasciandosi ottenebrare da un senso di quiete apparente e indulgendo a un pericoloso immobilismo.
Quella stessa inerzia che il poeta latino Orazio cantava come una profonda calma interiore, per cui l’animo del saggio non si scuote mai, dovesse “cadere anche il mondo”. In questa chiusa, in polemica col pessimismo ascetico di Schopenhauer, Leopardi non manca di ironizzare anche sullo storicismo romantico e il mito di Roma antica, quando pone Orazio a declamare le sue poesie per gli dèi dell’Olimpo, raccomandato a Giove dal divino Augusto. Un capolavoro da leggere e rileggere a distanza di tempo.
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