Federico Berti, La Lingua del Diavolo. Fiabe italiane

Federico Berti, La Lingua del Diavolo

Tratto da: Fiabe Italiane, 2025

Su un alto sperone di roccia che tutti chiamavano la Lingua del Diavolo, una scheggia di pietra vulcanica rotolata al tempo di Noè dalla grande caldera incandescente che incombeva non lontano, stava un piccolo paese in bilico sul nulla che al mattino pareva sospeso tra le nuvole del cielo. La vita vi scorreva tranquilla, chi zappava l’orto e chi portava le pecore al pascolo, chi potava le rose, chi batteva il ferro, chi partiva coll’asino e il birroccio per i suoi traffici, insomma era un posto dove la vita scorreva tranquilla a parte il nome terribile con cui lo chiamavano.

Una pastora di vent’anni si accorse una notte che la montagna ribolliva in modo sinistro emanando gemiti, guati, ululati, singulti che non venivano dal bosco o dal cielo ma proprio da sotto, dentro la terra, come se un gigante vi fosse intrappolato e si stiracchiasse nel sonno per cambiare posizione. Provò a parlarne cogli abitanti del piccolo paese arroccato sulla Lingua del Diavolo, ma nessuno aveva sentito nulla stanchi e ubriachi dal sonno com’erano; qualche volta provò a invitarli che vegliassero con lei ma curiosamente la montagna restava silenziosa, nulla si udiva nell’aria se non il canto dei grilli e dei ranocchi. Iniziarono a prenderla per una che non doveva avere tutti i venerdì in fila.

Avvenne un giorno che scendendo per la mulattiera verso un pascolo lì vicino, la pastora vide sul fianco della montagna dirimpetto, un bagliore e un rivolo rosso che discendeva da una feritoia scorrendo in silenzio, un rigagnolo di pietra liquefatta. Corse in paese a dar l’annuncio, ma quando portò la gente sul posto il rivo era stato inghiottito dalla terra e così le diedero un’altra volta della visionaria. Sicura di averlo realmente veduto con le fiammelle che ogni tanto si accendevano nell’aria, la giovane pastora si rodeva nell’animo pensando all’inenarrabile catastrofe che si sarebbe prima o poi abbattuta sulla Lingua del Diavolo, non dormiva dalla preoccupazione. Un mattino la montagna ruggì come una spaventosa chimera dell’altro mondo: le case tremarono, un boschetto sprofondò con tutta la pieve dentro come se la roccia lo avesse divorato, il rivo incandescente ritornò a mostrarsi più denso e minaccioso di prima e la pastorella scappò via senza voltarsi dal paese, per non tornarvi mai più.

Cammina e trotta, salì due volte la corona dei monti e due volte ne discese, finché la bocca del vulcano non sparve dietro un crostone; stanca, impaurita, trovò le rovine di un borgo diroccato in quel posto che chiamavano la Buca delle Fate, dove sonnecchiava da tempo immemorabile un mucchio di pietre e casupole dai tetti sfondati, moncherini di pareti invasi dalla menta e dalle ortiche, un cimitero e un pozzo asciutto. Sentendosi al sicuro si fermò in quel posto. Le prime notti dormì sulla nuda pietra coprendosi con le foglie secche, mangiando bacche, radici, qualche frutto spontaneo. Col passare dei mesi iniziò a coltivare un orticello e ripulì il pozzo dalla fanghiglia per poterne tirar su dell’acqua, ma continuava ad abitare in mezzo alle rovine come una fantasima, riparandosi dalla pioggia sotto quel che rimaneva delle tettoie crollate. Parlava coi fiori, le piante, gli uccelli e le farfalle. Non volle mai metter mano alle mura cadenti del borgo abbandonato, ogni tanto qualcuno saliva fin lassù e trovandola tutta sola chiedeva perché mai si ostinasse a quella vita, lei rispondeva che se la montagna avesse tremato ancora, non avrebbe avuto niente da perdere vivendo lì. La presero per una povera mentecatta.

La pastora continuò ad abitare tra le rovine del paese smurato e passarono settimane, giorni, mesi. Un bambino scoprì la radura una volta che si era perso nel bosco: veniva da un villaggiucolo nei ditorni e chiese alla donna se conoscesse la via del ritorno per quel casolare che si trovava nella tal strada, presso la tal fonte, sul limitare del tal boschetto, cosa che lei, avvezza a percorrere i sentieri, seppe dirgli senz’altro. Le lasciò in dono per riconoscenza un carillon che suonava caricandolo a molla, da allora tornò a farle visita di tanto in tanto e ogni volta portandole vuoi una focaccia, vuoi una frittella, una fetta di polenta dura. Non ci fu verso di convincerla a lasciare la radura sperduta, lei ripeteva sempre che la montagna prima o poi avrebbe tremato ancora e non aveva nessuna intenzione di tornare a vivere sulla Lingua del Diavolo. Finita l’estate passò da lì un cacciatore, che vedendola battere i denti dal freddo ritornò con una pelle conciata perchè potesse scaldarsi al gelo dell’inverno incipiente; nemmeno lui poté convincerla a tornare dai suoi cari, i quali ormai non azzardavano nemmeno più a cercarla poiché non volevano vederla in quello stato, inselvatichita com’era. L’ultima ad arrampicarsi lassù fu un’anziana vedova che andava a trifola col cane, provò anche lei come gli altri a dissuaderla da quella follia, ma la donna si mostrò irremovibile.

Col passare del tempo la pastora divenne una donna adulta e poi matura, ma persistette in quella vita solitaria e disagiata; tutti quelli che passavano di là udivano i suoi racconti sulla Lingua del Diavolo, ma nulla di quel che lei immaginava accadde mai realmente, nel frattempo gli anni passarono e i suoi capelli iniziarono a imbiancarsi, la pelle a sfiorire. Avvennero cataclismi perniciosi nel mondo che rovinosamente si abbatterono sulla contea, le carestie falcidiarono vite innocenti, le epidemie dilagarono, guerre sanguinarie causarono la sofferenza di innumerevoli donne, vecchi e bambini, ma la montagna stava sempre lì, non disse mai nulla; qualche volta il gigante si rivoltava sotterra per cambiare posizione e tornava a sonnecchiare tranquillo, ogni tanto la pietra si crepava e il sangue dell’inferno tornava a scorrere per qualche ora, per qualche giorno, tornando però sempre chiudersi. Nessuna delle profezie mai si avverò.

La pastora intanto deperiva per la dura vita che le toccava far nella radura, tra le rovine di quel borgo abbandonato. si sentiva come lo spirito di Cassandra condannata a vedere nel futuro senza che nessuno mai le credesse, qualcuno ogni tanto si avventurava fin lassù per confidarle qualche segreta inquietudine, o per domandarle un giro di carte con quel mazzoo che le aveva passato una vecchia maliarda di un paese vicino, nessuno però voleva sentir parlare del gigante nella montagna o della minaccia chela tapina sentiva incombere su tutto il circondario. Finché un bel giorno, recandosi al torrente per lavare i suoi poveri stracci, la pastora non incontrò una giovane donna che si bagnava nell’acqua, fresca e graziosa come una ninfa dei boschi. Pensando fosse una delle tante pellegrine che venivano a trovarla, si fermò a parlare con lei e quando si sentì in confidenza provò a tornare sul discorso intorno alla Lingua del Diavolo; la misteriosa bagnante ascoltò con attenzione finché non ebbe finito, continuando a sedereimmobile su un sasso nel letto del torrente, dal quale emergeva solo dall’ombelico in su. Quando l’ormai anziana donna ebbe finito il suo apocalittico vaticinio, la ninfa le domandò con voce scura, parlando lentamente:

“Dunque avete sempre pensato che la Lingua del Diavolo fosse condannata a una catastrofe imminente. Si sono dunque avverati i pronostici vostri ?”

“Non ancora ma dovrà senz’altro accadere, prima o poi” rispose la donna.

“Avrete pur notato quanto feconda sia la terra tutt’intorno alla Lingua del Diavolo. Con tante tragedie in questi ultimi anni, la montagna è sempre lì” incalzò la ragazza, continuando a fissarla nel viso e scrutandola con vivo interesse.

“Se aveste visto signorina, quel rivo di pietra sciolta incandescente che sgorgava dal fianco del monte, come l’ho visto io tanti anni fa, se aveste udito quel ribollire nelle viscere della terra, quel lamento coturbante, vi sareste convinta che la scheggia di pietra è destinata a sprofondare nelle viscere dell’inferno!”

“E così” disse la giovinetta, “Siete venuta a stare in un paese diroccato, abbandonato, isolato, dove nessun’altro vorrebbe fermarsi per tutto l’oro del mondo”

“Proprio così” rispose la donna, “Almeno qui sarò protetta dalle turbolenze intorno alla LIngua del Diavolo”

“E non vi siete mai chiesta” incalzò l’altra, “quando e come sia caduta in rovina questa borgata in cui vi ostinate a vivere da tanti anni, in cui avete scelto di invecchiare lontano dal mondo, lontano dalla vita?”

La donna ormai non più giovane si guardò intorno, pensierosa. Non ci aveva mai pensato. Nessuno le aveva mai detto il motivo per cui l’anonima borgata fosse stata abbandonata ormai tanto tempo prima: la tomba più recente nel piccolo cimitero risaliva a cent’anni prima che lei venisse al mondo, nessuno ricordava il fatto che doveva aver portato alla rovina di quel posto. Sapeva solo che lì si sentiva al sicuro. La ninfa sorrise allora, ma di un sorriso tutt’altro che rassicurante. Abbassando gli occhi al ruscello che scorreva sotto, la pastora si accorse che l’acqua era più calda, vide che in alcuni punti salivano grosse bolle in superficie: istintivamente ritrasse le mani e guardò con più attenzione la ninfa, notando che il sasso su cui sedeva rabbagliava una luce rosseggiante, proprio come quel giorno la ferita sul fianco del monte. Sentì stormire le fronde degli alberi, avvertì un sussulto nel terreno, le rovine diroccate presero a tremare e trema che ti ritrema si aprì una crepa inghiottendo il cimitero, le mura cadenti, il pozzo, la legnaia, il seccatoio.

“Chi teme il fuoco mai si scalda”, ebbe appena il tempo di pensare la povera donna, prima che una grande nuvola nera avvolgesse la radura pietrificando il suo corpo chino sulla riva del torrente. Ancora oggi si può vedere il sasso in cui è rimasta scolpita, consumato dal vento e dilavato dalle pioggie; ogni tanto qualcuno passa dalla radura ombrosa dietro il crostone che incombe sulla Lingua del Diavolo, getta una moneta ai suoi piedi e si allontana, proseguendo lungo il sentiero; qualche cacciatore attraversando la radura di notte è convinto di aver sentito un carillon risuonare nel bosco, ma forse è solo la suggestione che si confonde con la voce malinconica del torrente.


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