Venere luna. Romanzo noir italiano. Libro, Ebook.

Rebus eBook Romanzo

Venere luna

Il Boia dell’Alpe n.20
Thriller italiano
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Troppo comodo chiamarli matti. Vivono nel loro mondo, hanno regole diverse dalle nostre ma talvolta vedono più lontano di noi; nei momenti difficili vanno presi per mano perché son come i bambini. Non serve punirli se sbagliano, al contrario bisogna rassicurarli; così è Lupo, un solitario trentenne che vaga senza meta notte e giorno per il paese srotolando il suo libro dei proverbi in chissà quante lingue morte, rotoli di apocalittiche centurie in cui le orbite celesti danzano s’un calendario che nemmeno un vero astrologo ricorderebbe mai per intero. Un tempo l’idea d’incontrarlo da sola nel bosco m’avrebbe spaventata, ma dopo quel che han visto i miei occhi la scorsa notte al cimitero ballerei la manfrina pure col diavolo. M’ha piantato le pupille nel cranio il Lupo, sono trasparenti come l’acqua e mi sembra di vederci dentro l’universo intero; è serio, ma non nervoso. Il primo sole del mattino spunta dagli alberi nella radura, lui solleva un braccio e indica le baracche davanti a noi: “Venere luna!” ripete più volte. In altro contesto alle sue parole non darei importanza ma non qui e non ora, sta cercando un modo per comunicare con me. Il giorno in cui è cominciato l’incubo, Lupo è apparso all’improvviso gridando in preda al panico, mentre Berta cercava di calmarlo ne ho seguite le impronte sulla neve e così ho trovato il corpo di Anacleto sfigurato, immerso in un lago di sangue. “Venere, luna!” aveva detto quel giorno. Così ripete ora, incontrandomi nella macchia.


Ho lavorato negli ospedali psichiatrici
e mi sono convinta che quegli angeli
in terra si capiscono meglio parlando la
 lingua degli uccelli di quanto non riusciamo
a intenderci noi con le nostre complesse
categorie di pensiero.


Mi rassicura la sua presenza mentre m’avvicino a quel che resta della porta, sfondata e divelta dal cardine; ho la sensazione d’andare in bocca a una creatura infernale. Entrando non trovo nulla di speciale, qualche tavolo smontabile, delle panche, una madia coperta di polvere, tracce di umidità dappertutto e neve ghiacciata in terra, caduta senz’altro dai molti buchi nel tetto. La seconda baracca è una camerata con dormitorio in legno senza rete né materasso, non vedo armadi o altro arredamento che possa far pensare a un soggiorno stabile. Se mai qualcuno ha pernottato realmente qui doveva avere con sé almeno un sacco a pelo; sopra le assi ormai sconnesse e marcite del pavimento, segni inequivocabili d’incontri amorosi. Sotto la finestra una siringa sporca di sangue rappreso dorme il sonno dei rinnegati. Nella terza baracca, trovo una situazione completamente diversa: alcune assi del tetto sono state sostituite, l’interno è pulito, ordinato, sul mobile contro la parete non vedo tracce di polvere; segno d’una pulizia recente, non più d’una settimana. Al centro dell’angusto locale un unico letto m’arriva all’ombelico, sopra il quale dal soffitto vedo pendere un gancio arrugginito. Se lo guardo con attenzione, più che un giaciglio per riposare si direbbe un tavolo da obitorio, tuttavia non mi sembra di riconoscere nulla che possa indurre a ricostruire l’utilizzo reale del sito.

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Mi cade l’occhio sopra una bottiglia in terra nell’angolo, si direbbe rotolata per sbaglio forse all’insaputa di chi stava sgomberando la stanza. Riconosco nell’etichetta un liquore che usava anche mia madre in cucina, il disegno raffigura alcune donne intorno a un gigantesco albero di noce e sul tappo è stato applicato un elegante fregio in argento: è una falce con la gobba verso il basso. “Venere luna!” sento ripetere all’improvviso dalla finestra della baracca, su cui distinguo in controluce l’ingombrante figura del Lupo come sempre in orbita fra Saturno e Marte. Sorride, sembra contento, annuisce soddisfatto guardando con insistenza la bottiglia sul pavimento. Raccolgo, stappo ma l’odore non è quello della bevanda che m’aspettavo di trovarci dentro, si direbbe piuttosto un intenso aroma d’aglio. Per quanto ne sappia distillati curativi si trovano con frequenza nelle case dei montanari, tuttavia quando provo a versare qualche goccia del contenuto sul dorso della mano non esce niente: asciutto come un torrente in secca, le pareti interne hanno assunto una colorazione grigio metallica. Qualsiasi cosa fosse, di sicuro non liquore. Ripongo la bottiglia dov’era badando a non lasciare nulla in disordine, entro nell’ultima baracca dove sparse in terra vedo costruzioni di legno riccamente decorate, somigliano a quegli altarini che le donne antiche esponevano al passaggio della Madonna, ma non contengono solo immagini. Guardandole con più attenzione, sono state assemblate a formare dei reliquiari, servono a esporre dei resti umani. Dita, mani, denti, lingua, una disgustosa macelleria; l’espressione soddisfatta del Lupo che mi compare dritto sull’uscio e curva un poco la schiena per entrare, non lascia dubbi sul responsabile del ritrovamento. Come abbia fatto, rimane per me un mistero.

Non c’è tempo da perdere. Bisogna rimettere ogni cosa al suo posto, meglio non farmi trovare qui dai banditi, né dalla giustizia che probabilmente sta investigando sul traffico illegale delle salme: raccolgo uno di quegli oggetti e lo porgo al mio compagno, indicando una specie d’ossario ricavato sotto al pavimento in cui se ne trovano altri di quel tipo, sicuramente non appartenuti a santi e beati ma fatti in casa come le bolle di sapone. Chiedo a Lupo di rimettere quel materiale nell’esatta posizione in cui l’ha trovato, lui sembra non capire; inizio a spazientirmi perché il mattino è inoltrato e potremmo ricevere da un momento all’altro visite non gradite. La veglia coi morti. Mi porto all’imboccatura del vano scoperto, indico in basso, lui guarda me, poi in terra. E’ dispiaciuto di non potermi aiutare. Disperata, ripeto con tono concitato indicando la botola: “Che diamine, l’eterno riposo, capisci? Nanìn!”. Ho lavorato negli ospedali psichiatrici e mi sono convinta che quegli angeli in terra si capiscono meglio parlando la lingua degli uccelli di quanto non riusciamo a intenderci noi con le nostre complesse categorie di pensiero. Lupo ha compreso dal mio tono della voce e dallo sguardo che quei corpi hanno bisogno di dormire, quindi li ripone al loro posto, poi chiude lo sportello e mi fa cenno d’abbassare la voce: “Nanìn!” mormora. “Nanìn!” rispondo. (Continua a leggere)

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Laureato al Dams di Bologna con una tesi sulla narrazione, Federico Berti è cantantautore, polistrumentista, uomo orchestra, pubblica romanzi, poesie, canzoni. “Il Boia dell’Alpe” è ambientato nel paese di Monghidoro sull’Appennino Bolognese, dove risiede stabilmente dal 2001.

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Romanzo di Federico Berti
ISBN 9788822881595. 

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