Vi racconto un contenzioso millenario ed insidioso, un dissidio mai risolto, uno spettro senza volto, che tra l’edera e l’ortica la cicala e la formica innalzò a una statuaria tradizione letteraria. La cordiale canterina crepitava all’aria fina canzonando sperticata l’operaia indaffarata, che esplorava in seminario l’assolato circondario. Le parlò con decisione: “Voi mi fate compassione, tutte quante a sculettare nel plotone militare, spigolando poco o molto qualche avanzo del raccolto nel vicino comprensorio, per servirlo al refettorio; a vedervi tutte uguali, mi si appannano gli occhiali! Raccattare il bocconcino da riempire il magazzino, nella terra polverosa fate incetta d’ogni cosa e alla fine della corsa consumate la risorsa caparrandola per vezzo lei scarseggia e sale il prezzo! Quando poi viene l’inverno per noi altre è un vero inferno non si trova messe alcuna a pagarla una fortuna, per l’ingrato, rubicondo monopolio inverecondo”. La formica incuriosita l’ha scrutato di sfuggita: “Sei la solita egoista presuntuosa, narcisista, buona solo a far lamenti, maledire i quattro venti: tu ragioni per te stessa o viziata principessa! Ma nell’impeto dei flutti resti sola contro tutti, non conosci la ragione della pianificazione, il decreto applicativo, l’interesse collettivo. Prendi esempio cara mia, che a cantar la litania non ti cambia le valute: perdi il tempo e la salute!”. Terminato il resoconto del mio umile racconto, la sentenza del lettore lascio al buon intenditore, affinate le cervella toc e dai la zirudella.