Dal lago Tana a Lalibela. Odissea in Etiopia

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Un villaggio di tukul in Etiopia

 

Dal Lago Tana a Lalibela

Odissea in Etiopia, XI

 

La città santa di Lalibela

Spartaco Musolesi legionario italiano, scampato al massacro di Adua e spintosi fuggiasco nell’interno fino alle sorgenti del Nilo Azzurro, aveva coltivato a lungo l’intenzione di raggiungere Harar per unirsi agli anarchici europei inquadrati nelle milizie popolari dell’ Africa Orientale. La giovane e bella Sabadina lo aveva raccolto sulle rive del Lago Tana in fin di vita, curato e ospitato in una splendida radura, ma il tempo di ripartire ormai era giunto. L’italiano, dopo avventurose vicende, aveva fatto la sua scelta: non l’Africa era il campo di battaglia sul quale misurarsi, ma il suolo patrio. Bisognava combattere là dove i soldati venivano addestrati a massacrare poveri innocenti solo per tenere il passo della competizione allo sfruttamento coloniale. Non aveva dubbi, sarebbe tornato in Italia e per prima cosa doveva raggiungere la città santa di Lalibela, dove i monaci abissini l’avrebbero messo in contatto con chi poteva rimpatriarlo clandestinamente. Non aveva scelta, l’avvocato Igor Potier gli aveva dato il nome della persona cui affidarsi in completa fiducia, per questo s’era messo nuovamente in cammino con una cesta di rami intrecciati sulle spalle e viveri per pochi giorni. Disarmato, sperduto nella grande montagna etiope, esposto alle intemperie, alle bestie feroci, a ogni sorta di pericolo.

 

La regione del Gondar.

Si tenne a distanza dai piccoli villaggi di tukul, capanne di legno, sasso e fango, in cui abitavano gli Abissini, ma non troppo lontano nel caso che la montagna vestisse la sua maschera di morte; passò di fianco all’antica Samara, dove il negus Tewodros teneva il quartier generale vivendo con i suoi leoni da combattimento; se avesse attraversato la città senza una guida esperta, sarebbe finito senz’altro in pasto agli avvoltoi. Doveva continuare la sua marcia verso oriente seguendo il tracciato che segnava l’estremo confine meridionale del Gondar, oltre il quale s’apriva la regione controllata dagli Oromo. Oltrepassò la storica città del negus Susenyos, l’amico dei gesuiti che trecento anni prima aveva imposto a tutti gli abissini ortodossi di convertirsi al cattolicesimo, scatenando così guerre fratricide che ancora dividevano il paese tra favorevoli e ostili all’influenza europea. Non era solo un problema di religione, nel suo lungo cammino verso Gashena, la differenza apparve evidente: quelli che stavano dentro le capanne eran tutt’altro che selvaggi, le loro abitazioni semplici, ma ordinate, pulite, dignitose. Nell’area urbana invece, lontano dai centri del potere, non trovò che povertà, miseria, sporcizia, disinteresse verso gli spazi comuni. In fondo anche l’Italia conosceva zone collinari e montane dove le popolazioni rurali abitavano dentro baracche di legno, paglia e fango allevando galline, conigli, coltivando la terra e preparando un gustoso formaggio, come quello che Sabadina gli aveva offerto nel suo piccolo paradiso.

 

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Dalla capanna di Sabadina ai monasteri abissini di Lalibela

 

L’eresia monofisita.

Durante il  breve soggiorno francese, nei libri messi all’indice aveva studiato un po’ di quel passato che non voleva decidersi a correr via e scoperto cose che nessun capitano del regio esercito avrebbe mai rivelato alla sua massa di manovra, elegante giro di parole per definire la carne da macello: questi erano cristiani prima di noi, ma a Roma li consideravano eretici perché rinnegavano la natura umana di Gesù Cristo, per loro era soltanto un Dio, come tale esisteva in forma di spirito. Una bestemmia, per il vescovo di Roma. Ai tempi delle Crociate l’ordine dei Templari e quello di San Giorgio avevano  creato una fitta rete di relazioni in questo paese e cercato più volte di sottrarre la chiesa etiope all’influenza del patriarcato d’Alessandria, per attirarla nell’orbita della Chiesa Apostolica Romana. Monaci abissini avevano frequenti contatti col braccio armato del Papa e successivamente con le sue più tenaci milizie di propaganda, i padri gesuiti. Un interesse verso questo paese era parte della nostra vicenda nazionale da almeno mille anni e la cultura stessa del posto, divisa fra cristiani, pagani e mussulmani, più volte aveva manifestato un rigetto verso quegli stranieri che venivano dall’Europa, interessati al controllo del Nilo, al traffico mercantile intorno al Mar Rosso, piuttosto che allo scambio culturale con una fra le civiltà più antiche del mondo. Si perché dall’Eritrea allo Yemen si può andare in canoa, altro che Mosè. Poi c’era quel fatto imbarazzante dell’Arca intagliata nell’oro massiccio a Debre Mariam, su un’isola del Lago Tana, che si diceva il figlio di Salomone e della regina di Saba avesse rubato agli ebrei in Gerusalemme portandola fin qui, alle porte del paradiso. Proprio lei, l’arca dell’Alleanza.

 

La furia degli elementi.

Allontanandosi dal Lago Tana la vegetazione si fece sempre più rara e l’altopiano assunse un aspetto desertico simile a quello del campo di Adua, dopo essersi inoltrato verso oriente per più di duecento chilometri finalmente vide nell’ Acrocoro quei segni che gli erano stati predetti nella radura di Sabadina, volse a nord in direzione della città santa. Ma il vecchio Lucifero, che secondo una leggenda aveva lasciato aperta da quelle parti una delle bocche da cui s’entrava agl’inferi, trovando quel soldato impertinente e tenace a poche decine di chilometri dalla meta, gli scatenò contro la furia degli elementi. Spartaco avvertì sulle prime uno strano comportamento negli avvoltoi, che non avevano tralasciato di fargli ombra dall’alto per tutto il viaggio e sparirono in men che non si dica dalla circolazione; vide anche grossi roditori attraversare nervosamente i campi rocciosi e spelacchiati. S’alzò un vento aspro che turbinava intorno alle pietre scagliandole in aria a gran velocità, molte colpirono l’italiano alle gambe, ai fianchi, alla schiena. Sabbia e polvere sciamavano formando imponenti onde che gli sciabordavano intorno, afferrandolo ovunque con le loro cento braccia, graffiando il suo corpo già fragile e sfinito con invisibili artigli.

 

Un sonno simile alla morte.

Mentre la vista s’annebbiava e la terra gli s’infilava dappertutto facendo sanguinare gli occhi, si sentì mancare Spartaco Musolesi, in preda a un delirio febbricitante gli parve di vedere una creatura dal corpo di rettile e il volto umano, donna dall’ombelico in su: gli strisciava intorno sventolando stoffe colorate come a ripararlo dalla violenza dei venti, che imperversavano dai quattro punti cardinali, con lo sguardo pareva quasi fargli cenno di seguirla verso una parete rocciosa riparata dalla tempesta e lui, senza comprenderne la ragione, acconsentì a seguirla come si va dietro a un miraggio nel deserto. Ma la furia degli elementi non si placava, dopo un poco la creatura scomparve nei turbini di sabbia infuocata, Spartaco perse i sensi. Quando rinvenne, il vento s’era calmato ma il sole alto nel cielo continuava a friggergli in testa cuocendo le ferite che sassi e sterpi gli avevano procurato. S’accorse d’essere sdraiato sul dorso d’un mulo, assicurato con robuste cinghie di cuoio, davanti a lui un uomo di spalle teneva saldamente la briglia all’animale facendogli strada. Più volte si lasciò andare al torpore d’un sonno innaturale, più simile alla morte che al riposo, finché non si risvegliò per l’ultima volta steso di fianco s’una pietra liscia e odorosa di muschio, al riparo d’un contrafforte che lo proteggeva dall’arsura del sole ormai alto nel cielo. Era completamente nudo, non aveva più con sé la gerla né i vestiti, nemmeno le scarpe ai piedi: qualcuno lo aveva portato non sapeva nemmeno lui dove, forse lo aveva anche tratto in salvo da una morte indegna, ma gli aveva rubato ogni cosa. Tentò di guardarsi intorno per capire dove fosse, poi s’accasciò privo di forze nel letto di roccia ancora calda.

(Continua)

Odissea in Etiopia, Episodio XIII

La figlia di Aksum

 


 

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