Profughi. Spartaco, Romanzo

Profughi. Spartaco, Romanzo. Cap.5. Illustrazione Berti/Fotor

Federico Berti, Spartaco

Cap.5, Profughi

Romanzo di Federico Berti

Sull’assemblea regnava il silenzio, quando Sibilla apparve sotto il loggiato della trattoria col cestino che le dondolava sul braccio. “Una rosa, signori?”. Tacquero i convitati. Lei proseguì, porgendo un fiore al vecchio Ermete e preparando cogli altri un giaciglio per il corpo esanime della colomba, rimasto sul tavolo. Seguì un breve mormorìo sotto il portico della loggia, poi una voce sovrastò le altre, intanto che la bambina adagiava la salma dell’uccello sul cuscino di fiori da lei intrecciato. “Non c’è altro da dire mi sembra” disse l’uomo, continuando a osservare di sottecchi la scena, “Se qualcuno vorrà procurare un imbarco al nostro amico lo farà a sua discrezione. Il mio modesto consiglio sarebbe di non partire, ormai ha un’età più da vestaglia che da mantello. Lasciando l’Italia rinuncerà anche ai privilegi che la nostra amicizia finora gli ha garantito, quando sarà in Africa Orientale dovrà contare soltanto sulle sue forze e credete a me, farebbe meglio a non tornare sui suoi passi: una volta lasciato l’ordine, non sarebbe gradito in patria. Se nessuno ha domande o vuole aggiungere altro possiamo aggiornarci al prossimo incontro, non vedo ragione per insistere”. I presenti annuirono, la riunione venne sciolta e ognuno tornò alle proprie occupazioni. Restarono Ermete e la bambina, che guardò il suo benefattore con preoccupazione.

Pasquino il vecchio oste si sporse sul loggiato, richiamando con un cenno l’amico. Ermete si avvicinò e quello gli sussurrò in tono confidenziale: “Ascoltami bene ora, non c’è tempo per le spiegazioni. Questa notte andrai all’isola Tiberina, dove troverai una barca ma remi ormeggiata a un olmo. Prendila e vattene più lontano che puoi, la tua vita è in pericolo. Seguirai la corrente del fiume fino al porto, dovresti arrivarvi prima dell’alba. Lì vedrai una grande nave mercantile pronta per il mare aperto. Non chiedere dove sia diretta, pensa solo a metterti in salvo. Di pure all’armatore che ti manda Pasquino, farò in modo che tu possa navigare lontano da questi criminali. Non sanno di avere le ore contate, ma ora devi sparire per un po’. Vai a casa, prendi quel che puoi raccogliere in una borsa. Non salutare tua moglie, non ti lascerebbe andare. Nessuno le torcerà un capello, veglierò personalmente su di lei”. Ermete Musolesi  si fidava di quell’uomo trent’anni più vecchio, gli aveva insegnato molto quand’era solo un ragazzo e non aveva mai rinnegato il suo passato; doveva fidarsi di lui, non aveva scelta. Prese per mano la bambina e si allontanò.

Nell’attraversare la strada notò due dei partecipanti alla riunione rimasti nelle vicinanze intenti a saggiare la mercanzia tra i banchi, che lo guardarono dissimulando una sottile cattiveria e salutando con la mano. “Buon viaggio. Scrivi, ogni tanto!”. Lo apostrofarono, ridendo tra loro. Lui tirò dritto con una smorfia e sparì nella folla. “Quel vecchio pazzo andrà  a cercare sostegno in Francia, tra i compagni in esilio. Quella gente non ha il senso della misura”, mormorò l’uno, “Verrà protetto dagli esuli, si metterà a scrivere per qualche rivista  sovversiva o congiurerà contro di noi”. Rispose l’altro, “Conosco bene quegli esaltati, erano con noi sulle barricate vent’anni fa. Fossi in te non mi preoccuperei tanto. Quel vecchio illuso non è detto che sopravviva al viaggio”. Nel dire questo inarcò il sopracciglio e lo guardò per qualche istante con un occhio solo, in segno di complicità.

Ermete e la bambina percorsero vicoli, strade, piazze e viali, con passo lesto e in stato di evidente agitazione. Il tacco risuonava sulla pavimentazione della strada, l’uomo tendeva l’orecchio al minimo rumore temendo che qualcuno lo seguisse non visto. Quando scorgeva una figura umana in lontananza, si sforzava di riconoscerne le sembianze, per assicurarsi che non fossero uomini della confraternita o peggio, agenti della pubblica sicurezza in borghese. Non poteva continuare a vivere in quello stato d’incertezza, doveva partire al più presto e non aveva altra scelta che portare con se la bambina: troppe volte era stata vista con lui, non sarebbe mai rimasta al sicuro da sola.

Giunto a casa il maggiordomo, ormai consapevole della propria condizione di fuggiasco, scese in cantina a raccogliere alcuni documenti che doveva portare con sé nel viaggio, un’agenda con degli indirizzi utili, una fiasca tascabile per l’acquavite, la vecchia pipa di noce che fumava nella milizia e un cambio di biancheria. Mentre stava per salire le scale si trovò l’uscio impedito da un’ombra scura. “Ma dove credi di andare?” gli chiese una voce femminile in cui subito riconobbe la moglie dell’avvocato Bentini, la signora della porta accanto. “Ti prego di non farmi domande” le rispose, avvicinandosi e scansandola con dolcezza per passare. “Devi promettermi che non dirai nulla a Cassandra prima di tre giorni, abbi fiducia in me. E’ per il suo bene. Tu non m’hai visto, non sai dove sono. Non ci siamo mai parlati”. La donna chiese con un fil di voce: “Cosa ti viene mai in mente? Sei l’unico sostegno per lei, ora che vostro figlio è lontano. Non agire d’impulso, te ne prego”. Lui le pose una mano sopra la spalla: “Ora non posso spiegarti, ma credimi se ti dico di non insistere. Stalle vicino, tornerò a prenderla molto presto”. La povera donna promise a malincuore. L’uomo si avvolse nel tabarro e scese le scale in fretta, tenendo la bambina per mano. Attraversarono il cortile e scomparvero tra i vicoli.

Restarono nascosti per tutto il pomeriggio, muovendosi come spettri a testa bassa. Quando fu l’ora stabilita Ermete uscì allo scoperto e si diresse verso il fiume. Una sonnolenza innaturale era calata sopra la città come nebbia e non si vedeva anima viva in giro; qualche osteria ancora aperta da cui non trapelava alcun rumore, come se gli ubriachi fossero tutti addormentati sui tavoli. Persino ladri, puttane e vagabondi tralasciavano di animare i quartieri malfamati, tutto taceva d’un silenzio quasi opprimente che assicurava al vecchio fuggitivo una via di salvezza. Benedizione del cielo quel clima di sospensione, si recò all’isola sul Tevere dove trovò puntualmente la barca, come promesso. Era una notte senza luna, solo il fioco bagliore delle stelle riflettendosi nelle acque del fiume gli consentiva d’orientarsi. Tenne l’imbarcazione lontano dalla riva per non farsi riconoscere dalle ombre scure che talvolta si nascondevano sotto i ponti di Roma. Remando quel tanto che bastava a mantenere la rotta evitando i pilastri dei ponti, le secche improvvise, banchi di alghe e canneti, stretto nel mantello arrivò finalmente poco rima dell’alba al porto, sempre per mano alla fanciulla.

Il cielo cominciava a schiarire in lontananza, dietro la sagoma scura della città ancora addormentata. Si presero per mano, salirono la passerella del grande cargo in partenza, li accolse un uomo robusto sulla quarantina che li trattò semplicemente come profughi; al nome di Pasquino non fece domande, del resto un anziano che viaggia solo con una bambina al seguito e il mondo raccolto sulle spalle, non fa paura a nessuno. Prima a salire fu la piccola Sibilla, che andò a sedersi in poppa. Lui la seguì e trovò posto accanto a lei. Vennero sciolti gli ormeggi, levate le ancore e una brezza benevola si levò a sospingere la nave. Scivolarono sulle acque tranquille con lentezza, prendendo il largo. Le vele gonfiandosi a raccogliere quel venticello gagliardo, mentre l’acqua sciabordava sui fianchi e il profilo della città santa si allontanava alla vista sbiadendo nella foschia mattutina, l’aurora infondeva un colore  al cielo che sembrava dipinto dalla mano d’un pittore. “Addio monti, addio patria”, pensò il fuoriuscito, “Per te ho combattuto, per te ora fuggo lontano”. Il mercantile prese il largo sulla rotta per Marsiglia.


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