Il popolo inganna sé stesso. Odissea in Etiopia

libro odissea in etiopia primo capitolo
Ermete Musolesi, 1896. Villa Borghese, Roma.

Il popolo inganna sé stesso

Odissea in Etiopia Cap.1

Romanzo di Federico Berti

Un quarto di secolo era passato dalla marcia dei bersaglieri in Porta Pia, il testamento di Garibaldi suonava ancora in bocca ai sovversivi, la mummia di Mazzini ogni tanto si sentiva mugugnare nelle notti di luna dal suo elegante sarcofago nel mausoleo di Staglieno, mentre le galere pullulavano di spettrali marionette in pelle e ossa che componevano a mente lunghi poemi in attesa del rilascio o del patibolo. L’Italia era in mano a uomini senza dignità che tiravano avanti la carretta sulle spalle della povera gente, cui non restava che ingoiare da tergo la fiaccola del socialismo. Tre guerre d’indipendenza non erano servite a molto, chi comandava erano gli stessi di sempre.

Nello smagliante meriggio di una domenica romana in quell’estate del 1896, la passeggiata del Pincio era una vetrina dorata delle contraddizioni nella società, dietro il cui sipario si apriva un teatrino degli orrori mal dissimulato. Le aiuole disposte con cura per compiacere l’occhio dei benestanti olezzavano al limite dell’insopportabile, con quel miscuglio di odori che mal si accordavano con quelli dei balsami di Venere, profumi e belletti frammisti al sudore che impregnava la biancheria, in una desolante cacofonia olfattiva. Rose, glicini e magnolie si sforzavano di nascondere le miserie di una società paga di esibire nel giorno di festa il solo abito appena dignitoso che possedeva, tratto dagli armadi a due ante delle misere camere a pigione. Quelli che benestanti non erano, ma volevano sembrarlo. Gigli e petunie coronavano le statue dei notabili, i simulacri a cavallo dei generali, le icone sacre dei santi e delle vergini. Strafottenti zampilli dalle fontane scialavano l’acqua che mancava nelle borgate, in cui si moriva per una febbre non curata nelle case fetide, fuligginose e muffe, di una città che stava attirando i disperati da ogni parte della penisola. Tutto il parco trasudava un grossolano e viscido ossequio al potere. Sulla ghiaia dei viali nel giardino di Villa Borghese, dove l’orologio ad acqua, simbolo di una modernità indifferente ai problemi reali del popolo, contava i figli di Saturno man mano che il padre li divorava, la borghesia romana passeggiava tronfia pavoneggiandosi in capi di fine sartoria.

Ermete Musolesi stimato maggiordomo di Palazzo Chigi , con i suoi sessant’anni ben portati al sevizio di una scioperata e oziosa nobiltà prima, della corrotta classe politica poi, era stato forse un bell’uomo finché un qualche straccio di ideale lo aveva tenuto in vita, poi col tempo si era lasciato andare. La robusta corporatura, che tanto lo favorì nella vita militare prima di ritrovarsi congedato col benservito e una pacca sulla spalla, non era più la stessa; la curva del benessere gli si avvoltolava sotto l’orlo del panciotto ricordandogli che i tempi dell’assalto alla baionetta erano passati. Quella fitta giungla incolta e indomita che gli aveva cinto per decenni il capo, accompagnando le lunghe marce contro gli austriaci e i francesi, aveva ceduto il terreno a una fronte man mano più spaziosa, uno sguardo dal quale non trasparivano più le emozioni. Ermete indossava un completo nero, camicia di lino bianca dal colletto alto, uno sgargiante foulard. Seduto su una panchina davanti alla Fonte Gaia, pensava.

Non era mai stato religioso, o meglio aveva creduto follemente in quell’unica dea che si era venerata per un po’ in Notre Dame a Parigi, la ragione. Un socialista diceva sempre, se non è ateo prova a diventarlo: rispetta gli dei perché la lotta di classe non è una guerra santa, ma cerca di vincerlo nel proprio intimo. Per questo continuava a girarsi tra le dita quel santino dell’Arcangelo Michele donatogli da un mendicante innanzi alla chiesa della Santissima Trinità dei Monti in cambio di pochi spiccioli, fissandolo con un misto di tenerezza e compassione. Non era poi così diverso dalle illustrazioni dei libri per bambini pensò tra sé. Stesso stile, semplice, didattico e vuoi per la rifrazione della luce, vuoi per la vista che declinava con l’età, gli parve quasi di vederlo muoversi il guardiano dei cieli, come se levando un poco la testa finisse per guardarlo dritto negli occhi sospirando con rassegnazione, con l’aria di chi, se potesse parlare, direbbe: “Guarda un po’ che mi tocca fare”.

Sollevò leggermente il ritaglio di carta benedetta per confrontare il disegno con le statue alla Fonte Gaia, un satiro e una donna che allegri giocavano con il piccolo fauno in un amorevole quadro di vita familiare. Non sembravano poi tanto cattivi in fondo, quei poveri diavoli. Quattro teste di coniglio sputavano l’acqua tutt’intorno sotto di loro, un motto in latino esortava a elogiare nel mormorio dell’acqua il canto della vita. Distolse la sua attenzione un bambino che tirava per un braccio la madre passandogli davanti, seguì l’uno e l’altra con lo sguardo e si perse per qualche secondo fra le pieghe dell’abito lungo di lei, che risalendo il corpo sinuoso risolveva in un ampio fazzoletto intorno ai suoi capelli. Un santino vivente, si sorprese a mormorare tra sé. Poi, con una punta di amarezza: quel bambino, fatto uomo, verrà mandato da qualche parte nel mondo a scannarsi per il tornaconto di qualcuno che nemmeno conosce, si disse, carne da macello o come con alterigia la chiamano gli alti ufficiali, massa di manovra. Pensò a suo figlio Spartaco, era stato bambino anche lui come quel piccolo fauno, come il puer aeternus che gli era appena passato davanti; lo aveva tirato su con dignità solo per vederlo partire con quella ridicola uniforme da guerra coloniale. Dopo la rotta di Adua, di lui più nulla aveva saputo. Guardò ancora con disappunto la Madre di Dio allontanarsi nei viali del parco, chiedendosi in cuor suo come un prete possa benedire degli eserciti, e come un popolo possa continuare a ingannare sé stesso. (Continua)

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