La figlia di Aksum. Avventure d’un legionario.

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“Pure lui le aveva chiesto di scoprire il seno…”

 
 
 

La figlia di Aksum

Odissea in Etiopia XII

 

Gudit non è più una bambina.

Il primo sole del mattino entrò nella capanna disadorna sulle cui pareti stavano appese le lance e gli scudi del valoroso Aksum, abile combattente e fine stratega al servizio del Negus, accanto alla porta un grande vaso in terracotta pieno d’acqua, poco distante il grande tamburo. Svegliata dalle amorose canzoni degli uccelli che danzavano a centinaia intorno ai piccoli arbusti, la giovane Gudit si levò dalla stuoia. Tutt’intorno dormivano ancora. Era turbata da un sogno che aveva fatto quella notte, in cui la Vergine l’invitava a recarsi al fiume per lavare il proprio vestito da sposa: questo non le piaceva affatto, poiché lei non aveva alcuna intenzione di sposarsi anzi, a dire il vero le sarebbe piaciuto combattere insieme agli uomini, scacciare per sempre quegli assassini venuti da lontano; pensò alle ragazze di alcune tribù che per dissuadere le violenze dei soldati avevano preso l’abitudine d’incidersi le labbra infilandoci dentro un piattello rotondo, sfigurarsi affinché l’uomo non avesse a desiderarle, era un’idea poco ragionevole a suo parere. Gudit ormai aveva dodici anni, non era più una bambina. Presto avrebbe portato anche lei sulla schiena il segno della santa frusta.

 

Uscì dall’ampia capanna. L’aria fresca del mattino l’accarezzava sopra e sotto la veste, si coprì le spalle e recando con sé una brocca uscì dal villaggio attraversando la campagna dove si scorgevano alcuni uomini già al lavoro, altre donne più o meno giovani camminavano lungo il medesimo sentiero, si unì a loro: andare a prender l’acqua non era solo un’incombenza noiosa, ma anche un modo per incontrarsi; quando giunsero al torrente si lavarono insieme viso, mani e piedi, poi sostarono a riposare conversando amabilmente. Da che mondo è mondo le notizie corrono sul filo dell’acqua. Non vista la figlia di Aksum curiosava nei dintorni, fu in quel momento che s’accorse dello straniero disteso come morto sopra la roccia. Non era la prima volta, ne aveva visti altri come lui, feriti e senz’armi, salivano al santuario e poi sparivano. La piccola rimase ad osservarlo dall’alto d’una sporgenza rocciosa, interdetta fra la paura dell’ignoto, la curiosità per il nuovo e un senso di responsabilità che iniziava a svilupparsi in lei.

 

Leggera come una carezza, l’ombra del suo volto sfiorò la fronte dello straniero che si alzò a sedere per capire dove fosse: era completamente nudo, il corpo ricoperto di sabbia mista a sangue rappreso, ferite sulle gambe, sulle braccia, sul dorso, la barba folta e ispida. Il legionario osservò contro luce per qualche secondo il profilo di lei, sentì altre voci femminili non lontane e pensò al modo migliore per domandare aiuto. Non parlava la loro lingua, ma aveva imparato nel corso dei suoi viaggi che in terra straniera le parole non sono tutto, più spesso l’intenzione parla da sola quando negli occhi, nelle mani e in tutto il corpo risuona quel linguaggio comune a tutti gli esseri viventi: «Piccola cara…» esordì, «Dono del cielo, beato sia tre volte chi t’ha messo al mondo, gli angeli devono aver cantato per cent’anni quando sei nata. Non potrei nuocerti in alcun modo, ho solo bisogno d’aiuto. I miei compagni son tutti morti, abbi pietà di me: procurami una veste, indicami la via per il santuario. Il cielo te ne renda merito!».

 

Il discorso arrivò chiaro e diretto alla ragazzina, che rispose nella lingua dei suoi padri, una delle tante parlate in Etiopia: «Non so quale destino t’abbia spinto fra noi, ma vedo che porti con dignità la tua croce e non mi sembri un criminale. Sarai vestito, curato e nutrito, perché così è scritto». Detto questo la fanciulla chiamò a sé le altre donne. Dopo un breve cenno d’intesa tra loro, esortarono insieme l’italiano ad alzarsi in piedi e seguirle, ma sulle prime notando in lui una certa esitazione si guardarono l’un l’altra, poi videro che il poveretto copriva le vergogne dietro una siepe spinosa, dalla quale emergeva solo dai fianchi in su; una di quelle scoppiò a ridere, si strappò un lembo del mantello e glie lo gettò ai piedi. Strana ossessione questi europei, l’aveva notata un’altra volta, quando un soldato anziano pretendeva di ritrarla con quelle strane macchine che sputano il fumo, pure lui le aveva chiesto di scoprire il seno.

 

Le donne d’Abissinia s’allontanarono un poco ridendo tra loro, mentre l’italiano s’immergeva nel ruscello per lavare le ferite, la barba, i capelli, dopo essersi asciugato rapidamente al sole indossò quel panno come fosse un gonnellino da bagno. Vedendolo risalire il sentiero la più anziana sorrise parlando alle compagne: “Quand’era abbrutito dalla sorte sembrava un selvaggio, ora si direbbe un gran bell’uomo non vi pare?”. Nel dire questo infilò la mano dentro un fazzoletto ripiegato che portava in vita, nel quale aveva raccolto strada facendo alcuni piccoli frutti, ne porse una manciata all’avventuriero che li divorò senza nemmeno far caso al sapore. Gudit allora disse: “Ti porteremo al villaggio dove conoscerai mio padre, per molti anni è stato un valoroso guerriero, ora è tra i suonatori del grande tamburo; vedrai anche le nostre case nel giorno di festa e incontrerai mia madre. Davanti a lei inginocchiati, se avrà pietà allora potrai contare sul nostro aiuto”. Spartaco ebbe ancora una volta la sensazione d’aver compreso il discorso come se quelle donne parlassero la sua stessa lingua, caricò sulle proprie spalle una delle bilance che portavano l’acqua e insieme a loro s’incamminò in direzione del villaggio.

(Continua)

Odissea in Etiopia, episodio XIII

Makeda

 
 
 


 
 
 

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