J.D. Vance, Ursula Von Der Leyen e l’asino cornuto

Carta vince, carta perde. Manipolazione mediatica e appropriazione semantica

J.D. Vance che accusa Ursula von der Leyen di censura, autoritarismo, dittatura, è surreale in sé ma non deve passare in sordina e non se ne deve sottovalutare il pericolo. La logica dietro al suo recente discorso non è che un classico fenomeno di appropriazione a scopo manipolatorio, il capovolgimento dei significanti politici da parte dell’estrema destra, non solo americana, che neutralizza e previene qualsiasi forma di autentico dibattito politico.

Un paradosso di illusionismo retorico: il vicepresidente degli Stati Uniti, dalle posizioni notoriamente sovraniste e ultraconservatrici, che accusa di autoritarismo una destra europea relativamente ‘moderata’ non va interpretato come un semplice cortocircuito mentale, ma costituisce al contrario una tipica strategia di manipolazione mediatica, particolarmente insidiosa, che merita un’analisi approfondita.

Da sempre le destre reazionarie e autocratiche, non avendo argomenti propri al di fuori delle solite distrazioni di massa (immigrati, minoranze etniche, odio di classe) si appropriano delle critiche mosse a loro stesse dalla propria controparte, rivoltandole contro quest’ultima: un po’ come quando in campagna elettorale Trump si presentò addirittura nelle vesti del pacifista, accusando la sinistra americana di bellicismo relativamente al conflitto ucraino, per poi rivelare posizioni ben più aggressive contro il mondo intero, immediatamente dopo la vittoria elettorale.

Bene, la critica a Biden sulla questione ucraina era più che ragionevole, ma la destra se n’è appropriata per convincere gli elettori di sinistra a non votare per Kamala Harris, aggiudicandosi così la Casa Bianca. Non è un fenomeno recente, se pensiamo che già durante l’ascesa del nazismo in Germania, Hitler utilizzò una tecnica simile per rivoltare contro la Repubblica di Weimar il malcontento della classe operaia, appropriandosi della retorica popolare che da sinistra muoveva critiche verso la sinistra di allora, per proporsi come alternativa alle élite socialdemocratiche sprofondando così la Germania in un incubo.

Dal punto di vista semiotico, questo processo rappresenta un’operazione di svuotamento e riassegnazione del significato: concetto come l’autocrazia, la dittatura, l’illiberalismo, storicamente e semanticamente associati a movimenti di estrema destra, vengono deliberatamente distaccati dal referente originario e applicati a soggetti politici distanti da quella tradizione.

Non si tratta di un errore categoriale, ma di una precisa strategia di disorientamento del pubblico, questa operazione semantica agisce svuotando termini politicamente connotati del loro significato storico, trasferendone l’alone negativo verso nuovi bersagli e confondendo le coordinate del dibattito pubblico, per rendere di fatto impossibile qualsiasi confronto basato su categorie condivise.

Fondato è il sospetto che parte di questi messaggi venga elaborata attualmente con l’ausilio di modelli linguistici specificamente progettati per massimizzare l’impatto persuasivo, questo ovviamente solleva interrogativi inquietanti sulla possibilità che la propaganda contemporanea stia evolvendo verso forme sempre più sofisticate di ingegneria del consenso, capaci di adattarsi in tempo reale alle reazioni del pubblico.

Il pericolo più grave è l’erosione progressiva dei presupposti indispensabili per qualsiasi dibattito democratico: quando le parole vengono rifunzionalizzate per far loro corrispondere significati opposti a quelli storicamente consolidati, si produce una frattura nella comunità linguistica che rende impossibile la comunicazione, quindi lo stesso confronto democratico.

L’efficacia di questa strategia si basa su una sorta di reflusso retorico, l’estrema destra si appropria di critiche reali mosse dalla sinistra verso certe derive autoritarie delle istituzioni europee, le amplifica e le distorce, per poi rivoltarle contro l’intero progetto europeo. In questo modo, si tenta di screditare qualsiasi forma di sovranazionalità democratica, proponendo come alternativa un ritorno a forme esasperate di sovranismo nazionale.

Il pericolo più insidioso di questa strategia è un ‘nichilismo semantico’ in cui le parole non servono più a comunicare, ma diventano semplici proiettili nella guerra cognitiva. Quando ciò accade, il dibattito pubblico si trasforma in uno scambio di accuse reciproche prive di reale contenuto, mentre le decisioni politiche concrete vengono sottratte al controllo democratico: il nichilismo semantico crea le condizioni ideali per l’ascesa di forze autoritarie che possono operare indisturbate nel caos informativo, protette dall’equivalenza generalizzata di tutte le accuse e controaccuse.

Come possiamo difendere lo spazio pubblico democratico da tali, violente ma striscianti forme di manipolazione? Per contrastarne la minaccia, è necessario un rinnovato impegno nell’educazione reciproca alla cittadinanza democratica, che includa una forte componente di alfabetizzazione mediatica. I cittadini devono essere equipaggiati con gli strumenti concettuali necessari per navigare criticamente nelle paludi dell’informazione contemporanea, distinguendo l’uso appropriato delle categorie politiche dalle manipolazioni strumentali.

Le istituzioni accademiche hanno una responsabilità particolare nel mantenere viva la memoria storica e nell’impedire che concetti politici fondamentali vengano svuotati del loro significato. Questo richiede non solo ricerca e insegnamento, ma anche un impegno attivo nella sfera pubblica. In una parola, militanza attiva. La posta in gioco è alta: si tratta di difendere non solo la democrazia come sistema politico, ma anche le condizioni linguistiche e cognitive che la rendono possibile.

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