I sette muri della rete. Conversazione dal Libano.

Banksy, Murales in Siria
La rete divide, non unisce. E’ un muro che separa l’io dal noi. Solitudine, egoismo, competizione, superficialità, astio, menzogna, tradimento. Nelle note che seguono, una conversazione con la professoressa Myriam Dalal, dal Libano.

I sette muri
della rete

Attraversarli senza
farsi male

Articolo di Federico Berti

TUTORIAL FAKE NEWS

Nel ricostruire l’intenzione dietro all’idea per contribuire ad arginare il fenomeno dilagante della disinformazione di massa, abbiamo dunque ripercorso tre punti fondamentali: in primo luogo prescindere dal problema della verità e partire dall’unica realtà alla portata della nostra esperienza diretta, ovvero il rituale della narrazione. L’informatore è un narratore. In secondo luogo, identificare la nostra fonte diretta, ricostruire la sua posizione e porsi il problema dell’intenzione narrativa che lo ha spinto a raccontarmi qui e ora la sua storia. In terza istanza, ripercorrere all’indietro le fonti che quel narratore riporta, per identificare i nodi, ovvero i narratori che lo hanno preceduto, attraverso cui quella storia è potuta arrivare fino a noi. In questo capitolo parleremo della quarta fase, che è quella di attraversare i muri della rete, ovvero organizzare i nodi in una rete con cui relazionarsi, confrontarsi in modo diretto con le altre persone che stanno svolgendo lo stesso tipo di ricerca. La collaborazione tra nodi, come avevamo già visto parlando di Butac, Pandora Tv, David Puente, Eva Bartlett, Miriam Dalal.

LE FOTO DI ABDUL AZIZ

Ricostruiamo dunque il caso del bambino che dorme tra le tombe. Un’intervista del 2014 ha dato origine a uno scandalo internazionale, si parlava di un bambino fotografato fra due tombe da un uomo che sosteva di  essere suo zio e di aver voluto realizzare un servizio per rappresentare visivamente l’amore filiale. Quelle foto erano state riprese non solo e non tanto dagli utenti dei social networks, ma da agenzie stampa internazionali, per lo più americane, arabe, turche e libanesi: decine, centinaia, migliaia di profili, pagine fasulle o legate alla propaganda, hanno elevato le foto del bambino a inganno dei media, nella distorsione della fonte originaria si sono andate a distinguere due versioni, una per così dire autarchica e nazionalista, volta a scoraggiare i governi occidentali dall’accoglienza ai rifugiati, l’altra pacifista e antimperialista in cui si rimprovera alle grandi potenze l’aggressione ingiustificata dell’ultimo paese laico e pluralista in Medio Oriente, la Siria. Le due visioni del mondo convivono spesso in una stessa persona, in uno stesso lettore, confuso da tante nozioni che arrivano da ogni parte e fra le quali fatica a districarsi. Abbiamo scambiato un’interessante conversazione con un interlocutore che sostiene di essere proprio lei, la professoressa Myriam Dalal, autrice dell’articolo da cui è partito tutto questo: pur nella consapevolezza che solo una posta certificata può garantirmi (pe rcosì dire) l’identità della persona con cui mi sto confrontando, ho ascoltato con piacere alcune delle sue puntualizzazioni.

IL BAMBINO CHE DORME FRA LE TOMBE

E’ un’insegnante di fotografia all’Università la professoressa Dalal, molto giovane e con esperienze in varie riviste libanesi che si rivolgono per lo più a un pubblico occidentale. Dopo aver letto alcuni miei articoli in cui parlavo della polemica in Italia tra Giulietto Chiesa e Michelangelo Coltelli sulla manipolazione mediatica, è rimasta colpita da una sua foto riprodotta in quella pagina e dal suo curriculum riportato nell’articolo: un vero peccato spiega, le sarebbe piaciuto poter leggere l’articolo prima che venisse pubblicato per potersi almeno dissociare dalla precedente collaborazione tra una delle riviste per cui ha lavorato e Wikileaks, per poter chiarire la sua estraneità al conflitto con la Siria e magari per potermi spedire una copia delle domande e risposte al fotografo Abdul Aziz, avremmo potuto ripercorrere insieme le fonti ottenendo forse risultati più completi.

IL GIOCO DELLE PARTI

Non ha torto Miriam Dalal, le rispondo subito per rassicurarla che l’articolo non riguarda lei direttamente ma si inserisce in una polemica tutta italiana in merito all’uso che del suo articolo è stato fatto: devo poter contestualizzare le sue parole per potermi fare un’idea del loro contenuto e quel che m’interessava nel suo curriculum era semplicemente poterla collocare come una voce libanese, che scrive per una rivista libanese, che scambia corrispondenza con un interlocutore il cui profilo non è chiaro se provenga dall’Arabia Saudita, dal Bangladesh oppure dagli Stati Uniti d’America. Non importa se il fotografo esista realmente, quel che davvero conta è non poterlo identificare in doppio cieco, direbbe un medico: ovvero, con un colloquio in posta certificata, una firma elettronica, un documento d’identità, qualcosa insomma che possa garantirmi di avere dall’altra parte del cavo proprio la persona con cui sono convinto di parlare. Scrivo a Miriam Dalal usando l’indirizzo mail che trovo sul sito di una delle università con cui collabora, mi risponde regolarmente. Con un poco di sollievo, penso che falsificare il sito di un istituto di ricerca sia più complicato che falsificare una semplice casella di posta elettronica, questo non è forse ancora una garanzia assoluta ma per ora mi basta, se dovessi approfondire andrei a cercarmi altre prove della sua identità.

IL FILO D’ARIANNA

L’artista libanese mi offre alcuni dati per potermi districare nella carenza di fonti, come ad esempio un’email del suo capo redattore su Beirut.com e l’email privata del fotografo Abdul Aziz, o meglio dell’uomo con cui lei ha parlato, consapevole che potrebbe trattarsi in teoria di chiunque. In buona sostanza, dalle sue parole comprendo che il servizio per la rivista libanese non avrebbe mai pensato portasse a un tale scandalo internazionale e probabilmente non gli aveva dato molta importanza quando le venne commissionato. Riguardo alle foto del bambino fra le tombe, il suo parere è che in un cimitero normale non sarebbe mai potuto accadere: un bambino che stende la coperta fra due tombe sarebbe stato senz’altro allontanato dalla sorveglianza, sulla base di questo ragionamento le sembra quanto mai verosimile l’ipotesi che non si trattasse di un’immagine autentica, ma essendovi alla base un’intenzione di tipo creativo e non di semplice reportage, non può nemmeno considerarla un fake. Per lei è arte contemporanea.

L’ARTE MIMESI DEL REALE

Ringrazio Miriam Dalal rispondendole che non sento il bisogno di contattare il fotografo né il suo caporedattore, perché la sua risposta mi ha già chiarito il problema, quello che a me interessava risolvere almeno, ovvero la polemica tra Giulietto Chiesa di PandoraTv e Michelangelo Coltelli di Butac.com. I due video in cui si parla della propaganda di guerra non dicono assolutamente nulla di nuovo, in un articolo che puoi leggere qui ho inserito voutamente una galleria d’immagini tratte dal repertorio della prima e della seconda guerra mondiale, in cui compaiono bambini in posa coi soldati americani: il reportage ha il compito di rappresentare una realtà dinamica attraverso un oggetto statico, la foto per l’appunto, non sempre questo si può fare senza una posa, ovvero senza intervenire sulla realtà. L’immagine del resto parla dei fatti, ma non può sostituirsi ad essi: siamo alla teoria platonica dell’arte come mimesi del reale, che nulla toglie alla verità dei fatti raccontati: chissà quanti bambini saranno rimasti orfani sulle tombe dei genitori nei paesi in guerra e quanti innocenti verranno soccorsi ogni giorno dai caschi bianchi sotto le macerie dei nostri bombardamenti. Che il bambino fosse in posa o meno, questo continuerà ad accadere purtroppo se gli eserciti non verranno richiamati dal fronte.

LA VERITA’ E’ UNA SCELTA

Il vero problema quindi non è l’esistenza del fotografo o la collaborazione dell’insegnante libanese con una rivista per turisti occidentali, argomenti su cui abbiamo voluto interrogarci solo per poter meglio contestualizzare la documentazione in nostro possesso, ma l’intenzione che sta dietro alla produzione dei documenti che da quelle immagini sono partiti: il problema della ‘verità’ va sostituito con quello della ‘ricerca’. Se crederemo alla versione istituzionale della Siria oppressa da un sanguinario dittatore e saremo spaventati dall’invasione dei profughi, saremo portati ad accogliere con favore la versione inglese, ma se consideriamo al contrario illegittimo il supporto dato dall’economia occidentale, con la complicità della Nato, a un terrorismo che non nasce all’interno della Siria bensì viene alimentato dall’esterno, allora saremo più vicini al video promosso da PandoraTv. La verità è una scelta.

I SETTE MURI DELLA RETE

Quel che conta però nel nostro caso è aver attraversato i sette muri della rete. Miriam Dalal ha preso in mano la ‘penna’ e mi ha scritto, senza remore. Ha espresso il suo timore, il suo dispiacere, la sua incomprensione, ha letto con piacere il mio chiarimento e si è sentita rassicurata dalle mie parole. Quindi mi ha offerto delle tracce da seguire, ha messo in comune con me delle risorse, le sue: quelle che lei ha usato per scrivere il servizio quattro anni fa. Io e lei insieme sapremo sempre qualcosa in più che ognuno di noi da solo. La vera potenza nella ricerca sulle fake news è quella che porta le persone ad attraversare la barriera dell’impersonale, cercando l’altro. Questa è l’unica soluzione alle menzogne della propaganda. Il vero problema a questo punto è se possa farlo un comune lettore, purtroppo nella maggior parte dei casi la risposta è no, ma chi non ha gli strumenti o il tempo di condurre una ricerca più approfondita può comunque scegliere il pluralismo delle sue fonti e attraversare a sua volta i sette muri della rete valutando ognuna delle voci che ascolta, imparando a conoscerle meglio una ad una per farsi un’idea della loro credibilità. Come una volta si leggevano diversi giornali, così ora si dovrebbe leggere di uno stesso argomento da più autori, partecipando attivamente al dibattito con le famose ‘lettere in redazione’. O altrimenti, sospendere il giudizio. In questo modo avremo informatori più attenti, perché si sentiranno continuamente sotto esame dal loro stesso pubblico, e lettori più informati. Ringrazio la professoressa Dalal per la sua disponibilità al confronto. Insieme abbiamo dato una prova di giornalismo consapevole.

Condividi